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La gioia di servire il popolo.

Papa Francesco e la mistica

 

 

 

 

Articolo pubblicato
in
Unità e Carismi
3-4 (2014) 49-52

 

 

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Dalle parole e dai gesti di papa Francesco emerge una visione del popolo, la “fraternità mistica”, che trova le sue radici nella dimensione mistica del carisma di sant’Ignazio di Loyola.

 

 

 

A volte basta un gesto per dire chi è una persona, i valori in cui crede, la visione originaria che anima la sua vita. Papa Francesco, la sera della sua elezione, prima di dare la sua benedizione, china il capo di fronte al popolo radunato in Piazza San Pietro chiedendone la benedizione. Il papa che si lascia benedire dal popolo.

 

Una fraternità mistica

 

Mi sono chiesto da dove potesse nascere questo gesto profetico. Ho cominciato a trovare la risposta nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium. Pagina dopo pagina è apparsa sempre più intensamente una chiave di lettura fondamentale: il popolo. Considerato soprattutto come rete di relazioni interpersonali vissute alla luce di una visione mistica:

 

Oggi, quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi, sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio (87).

 

[…] il modo di relazionarci con gli altri che realmente ci risana invece di farci ammalare, è una fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano, che sa sopportare le molestie del vivere insieme aggrappandosi all’amore di Dio, che sa aprire il cuore all’amore divino per cercare la felicità degli altri come la cerca il loro Padre buono (92).

 

Nel Documento di Aparecida si descrivono le ricchezze che lo Spirito Santo dispiega nella pietà popolare con la sua iniziativa gratuita. In quell’amato continente, dove tanti cristiani esprimono la loro fede attraverso la pietà popolare, i Vescovi la chiamano anche «spiritualità popolare» o «mistica popolare». Si tratta di una vera «spiritualità incarnata nella cultura dei semplici». Non è vuota di contenuti, bensì li scopre e li esprime più mediante la via simbolica che con l’uso della ragione strumentale, e nell’atto di fede accentua maggiormente il credere in Deum che il credere Deum (124).

 

La fraternità mistica è alimentata da un principio: il tutto è superiore alla parte. Possiamo riconoscere in queste parole un’eco della preghiera di Gesù per l’unità:

 

A noi cristiani questo principio parla anche della totalità o integrità del Vangelo che la Chiesa ci trasmette e ci invia a predicare. […] La “mistica popolare” accoglie a suo modo il Vangelo intero e lo incarna in espressioni di preghiera, di fraternità, di giustizia, di lotta e di festa. La Buona Notizia è la gioia di un Padre che non vuole che si perda nessuno dei suoi piccoli. Così sboccia la gioia nel Buon Pastore che incontra la pecora perduta e la riporta nel suo ovile […] Il Vangelo possiede un criterio di totalità che gli è intrinseco: non cessa di essere Buona Notizia finché non è annunciato a tutti, finché non feconda e risana tutte le dimensioni dell’uomo, e finché non unisce tutti gli uomini nella mensa del Regno (237).

 

Vivere la fraternità mistica, infine, dilata la nostra interiorità sulla misura di quella divina, ce ne rende partecipi e ci permette di sentire la “pienezza di Dio”, la presenza del Signore in mezzo a noi che, in fondo, è il suo più bel regalo:

 

L’amore per la gente è una forza spirituale che favorisce l’incontro in pienezza con Dio fino al punto che chi non ama il fratello «cammina nelle tenebre» (1 Gv 2, 11), «rimane nella morte» (1 Gv 3, 14) e «non ha conosciuto Dio» (1 Gv 4, 8). Benedetto XVI ha detto che «chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio», e che l’amore è in fondo l’unica luce che «rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire». Pertanto, quando viviamo la mistica di avvicinarci agli altri con l’intento di cercare il loro bene, allarghiamo la nostra interiorità per ricevere i più bei regali del Signore. Ogni volta che ci incontriamo con un essere umano nell’amore, ci mettiamo nella condizione di scoprire qualcosa di nuovo riguardo a Dio. Ogni volta che apriamo gli occhi per riconoscere l’altro, viene maggiormente illuminata la fede per riconoscere Dio (272).

 

La radice ignaziana

 

Questa visione mistica del popolo ha le sue radici nell’esperienza ignaziana di papa Francesco. Ne parla lui stesso in vari modi. Innanzitutto quando, nell’intervista a La Civiltà Cattolica, ci racconta come vede il gesuita:

 

L’aura mistica non definisce mai i suoi bordi, non completa il pensiero. Il gesuita deve essere una persona dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto[1].

 

Poi, quando ci rivela il suo rapporto con Pietro Favre, il primo compagno di sant’Ignazio di Loyola e con Ignazio stesso:

 

Il dialogo con tutti, anche i più lontani e gli avversari; la pietà semplice, una certa ingenuità forse, la disponibilità immediata, il suo [di Favre, ndr] attento discernimento interiore, il fatto di essere uomo di grandi e forti decisioni e insieme capace di essere così dolce, dolce […] Ignazio è un mistico, non un asceta. Mi arrabbio molto quando sento dire che gli Esercizi spirituali sono ignaziani solamente perché sono fatti in silenzio. In realtà gli Esercizi possono essere perfettamente ignaziani anche nella vita corrente e senza il silenzio. Quella che sottolinea l’ascetismo, il silenzio e la penitenza è una corrente deformata che si è pure diffusa nella Compagnia, specialmente in ambito spagnolo. Io sono vicino invece alla corrente mistica, quella di Louis Lallemant e di Jean-Joseph Surin. E Favre era un mistico[2].

 

Nell’intervista a Eugenio Scalfari (1 ottobre 2013), papa Francesco ritorna su questo punto, comunicandoci anche una sua personale esperienza successiva al momento dell’elezione:

 

«[…] Ignazio che fondò la Compagnia, era anche un riformatore e un mistico. Soprattutto un mistico». E pensa che i mistici sono stati importanti per la Chiesa? «Sono stati fondamentali. Una religione senza mistici è una filosofia». Lei ha una vocazione mistica? «A lei che cosa le sembra?». A me sembra di no. «Probabilmente ha ragione. Adoro i mistici; anche Francesco per molti aspetti della sua vita lo fu ma io non credo d’avere quella vocazione e poi bisogna intendersi sul significato profondo di quella parola. Il mistico riesce a spogliarsi del fare, dei fatti, degli obiettivi e perfino della pastoralità missionaria e s’innalza fino a raggiungere la comunione con le Beatitudini. Brevi momenti che però riempiono l’intera vita ». A lei è mai capitato? «Raramente. Per esempio quando il Conclave mi elesse Papa. Prima dell’accettazione chiesi di potermi ritirare per qualche minuto nella stanza accanto a quella con il balcone sulla piazza. La mia testa era completamente vuota e una grande ansia mi aveva invaso. Per farla passare e rilassarmi chiusi gli occhi e scomparve ogni pensiero, anche quello di rifiutarmi ad accettare la carica come del resto la procedura liturgica consente. Chiusi gli occhi e non ebbi più alcuna ansia o emotività. Ad un certo punto una grande luce mi invase, durò un attimo ma a me sembrò lunghissimo. Poi la luce si dissipò io m’alzai di scatto e mi diressi nella stanza dove mi attendevano i cardinali e il tavolo su cui era l’atto di accettazione. Lo firmai, il cardinal Camerlengo lo controfirmò e poi sul balcone ci fu l’“Habemus Papam”».

 

Rileggendo le parole di papa Francesco mi ritornano in cuore le visioni di Cristo e di Maria che Ignazio sperimenta a Manresa:

 

Molte volte, e per molto tempo, mentre era in preghiera, gli accadeva di vedere con gli occhi interiori l’umanità di Cristo, e quello che vedeva era come un corpo bianco, non molto grande né molto piccolo, ma senza alcuna distinzione di membra. […] Ha visto anche nostra Signora, nello stesso modo, senza distinzione di membra (Autobiografia, 28).

 

L’umanità (gloriosa, in quanto nella visione si rende visibile una persona viva) di Cristo e Maria “senza distinzione di membra” evoca una visione di popolo nella sua unità, non perché le singole membra siano annullate, ma perché tutte insieme, e ciascuna in particolare, esprimono (un solo) Cristo e (una sola) Maria. Il bianco, sintesi dei colori dell’iride, va in questa direzione. Il fatto che Maria si mostri “nello stesso modo” fa pensare che questo popolo ha una dimensione mariana, femminile, inclusiva, uguale per dignità a quella, istituzionale, espressa da Cristo.

 

Bisognerà ulteriormente approfondire nella nostra vita quotidiana e nella riflessione teologica questa sfida tipica del nostro tempo: vivere da “mistici”.

 

 

 

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[1] A. Spadaro, Intervista a Papa Francesco, in La Civiltà Cattolica 3918 (2013) 455.

[2] Ibid., p. 457.