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Il senso della condivisione
di beni |
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Insieme con Il senso della condivisione di beni
Innanzitutto ci siamo domandati: qual è il senso della condivisione del nostro denaro per sostenere la «Grotta del Pater»? Ci rendiamo sempre più conto che la «Grotta del Pater» ha innanzitutto bisogno di noi, gesuiti e laici cvx, del nostro amore, della comunione che riusciremo a realizzare tra noi. Potremmo infatti «distribuire tutte le nostre sostanze e dare il nostro corpo per esser bruciato, ma, se non avessimo la carità, non saremmo nulla» (1Cor 13,3). Siamo consapevoli che la condivisione del nostro denaro deve essere espressione della nostra comunione spirituale. Crescere nella responsabilità significa non soltanto dare dei soldi per sostenere economicamente la «Grotta del Pater», ma, attraverso la condivisione dei nostri beni, diventare più veri e più uniti tra di noi, essere di più un cuore sole e un’anima sola: «La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (At 4,32-35). Ma cosa dobbiamo fare? Innanzitutto offrire a Gesù noi stessi, mettendo a sua disposizione tutto ciò che abbiamo «tra le mani», perché Lui possa moltiplicarlo, come ha moltiplicato duemila anni fa i cinque pani d’orzo e i due pesci ricevuti dalle mani di un ragazzo (Gv 6,1-13). Questa offerta, lo sappiamo,
riguarda tutti, perché tutti abbiamo qualcosa da offrire a Gesù: creatività,
tempo, cultura, denaro, spirito di collaborazione, dinamicità, idee piccole e
grandi, capacità di dialogo, competenze, professionalità, coraggio di
rischiare, spirito di sacrificio, voglia di lavorare, tenacia, umiltà, ecc.
Affinché la comunione tra di noi cresca sempre di più dobbiamo essere «liberi
dentro il cuore» e «liberi nelle mani»: «Prendi, Signore, e accetta tutta la mia libertà,
la mia memoria, il mio intelletto, la mia volontà, tutto quello che ho e
possiedo. Tu me lo hai dato; a te, Signore, lo ridono. Tutto è tuo: di tutto
disponi secondo la tua piena volontà. Dammi il tuo amore e la tua grazia, e
questo solo mi basta». Quale
criterio utilizzare per “mettere ordine” nel nostro rapporto con il denaro e
ordinare la nostra economia?
Davanti a noi, gesuiti e laici cvx, abbiamo una sfida: assomigliare di più ad una comunità cristiana formata da persone che vogliono vivere secondo il Vangelo anche il rapporto con il denaro, oltre la preghiera e il servizio. Oppure assomigliare di più ad «un’associazione di volontariato di ispirazione cristiana», formata da persone che, con un reddito medio-alto, fanno beneficenza e volontariato con i soldi ricavati da quote associative e da finanziamenti pubblici, ma che toccano solo marginalmente la propria ricchezza e i propri beni. Sappiamo
bene come la ricchezza, con la
dinamica del possesso e dell’accumulo, sia un serio pericolo per un’autentica
vita cristiana. E d’altra parte la
mentalità dominante fa di tutto per imporre alla nostra coscienza la cultura
dell’avere. Crediamo che in questo
momento però, con tutta la delicatezza possibile, occorre cercare la
«verità che ci farà liberi». Il Vangelo dice che la mia felicità sta nel distacco interiore e concreto dalla ricchezza: «Beati i poveri in spirito» (Mt 5,3), «Beati i poveri» (Lc 6,20). Dice che se io lascio tutto
per Gesù, avrò il centuplo su questa terra e l’eternità: «Chiunque avrà
lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per
il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in ere-dità la vita eterna»
(Mt 19,29). Dice che se do, avrò:
«Date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà
versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a
voi in cambio» (Lc 6,38). Dice che sono uno stolto quando voglio accumulare e conservare tesori per me, invece di arricchire davanti a Dio, perché perderò non solo quelli, ma soprattutto rischio di perdere la mia anima (l’uomo ricco in Lc 12,20 che costruisce magazzini più grandi ma la notte stessa il Signore viene a chiedergli la vita) Dice che c’è «più
gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Dice che non posso
servire due padroni. Anzi che occorre cercare prima di tutto il regno di Dio
e la sua giustizia e tutto il resto il Padre lo darà in aggiunta (Mt
6,24-34). Dice che devo dare tutto, anche quello che mi sembra poco e necessario (l’obolo della vedova in Mc 12,41-44). Dice che «Dio ama chi
dona con gioia» (2Cor 9,7). Ma quale
criterio utilizzare per poter ordinare la nostra economia secondo il Vangelo? Ignazio di Loyola ci viene in aiuto con due passi degli Esercizi spirituali: «Per emendare e riformare la propria vita e stato di vita» (n. 189) e le «Regole sulle elemosine» (nn. 337-344). Il primo dice: «C’è da avvertire coloro che sono costituiti in una dignità ecclesiastica o nel matrimonio (sia che abbiano molti beni terreni, sia che non ne abbiano) che se non hanno la possibilità o la molto pronta volontà di fare elezione delle cose soggette ad elezione mutabile, giova molto, invece di fare elezione, presentare la forma e il modo di emendare e riformare la propria vita e stato di vita proprio di ciascuno, cioè indirizzando la propria esistenza, vita e stato di vita alla gloria e lode di Dio nostro Signore e alla salvezza della propria anima. Per raggiungere e conseguire questo fine, deve considerare e riflettere, attraverso gli esercizi e i modi di fare elezione già spiegati [175-188], quale genere di casa e di servitù deve avere, come la deve dirigere e governare, come la deve educare con la parola e con l’esempio; così anche riguardo ai suoi averi, quanto deve destinare per la sua servitù e la casa e quanto deve essere distribuito ai poveri o in altre opere pie, senza volere o cercare cosa alcuna che non sia in tutto e per tutto la maggior lode e gloria di Dio nostro Signore. Perché ciascuno pensi che tanto si aiuterà in tutte le cose spirituali, quanto si libererà dall’amore di sé, dalla propria volontà e dal proprio interesse». Del secondo testo, invece, sottolineiamo la settima regola (n. 344): «Settima regola. Per le ragioni già esposte e per molte altre, in quello che riguarda la propria persona e l'andamento della casa, è sempre meglio e più sicuro ridurre e diminuire più che si può, e avvicinarsi il più possibile al nostro supremo pontefice, nostro modello e nostra regola, che è Cristo nostro Signore. Conforme a questo principio, il terzo concilio di Cartagine (a cui prese parte sant'Agostino) stabilisce e ordina che la suppellettile del vescovo sia semplice e povera. La stessa considerazione si deve fare per tutti i modi di vita, cercando di adattarla alla condizione e allo stato delle persone. Così, per il matrimonio, abbiamo l'esempio di san Gioacchino e di sant'Anna, che, dividendo i loro beni in tre parti, davano la prima ai poveri, destinavano la seconda al ministero e al servizio del tempio, e conservavano la terza per il sostentamento proprio e della loro famiglia». Agli esercitanti di qualunque stato di vita, religiosi/e e sacerdoti compresi, Ignazio suggerisce in questi testi un criterio per indirizzare «la propria esistenza, vita e stato di vita alla gloria e lode di Dio nostro Signore e alla salvezza della propria anima»: dividere in tre parti i beni. Come si può notare, nel primo testo il criterio della ripartizione è suggerito alla persona singola. Nel secondo, lo stesso criterio, in modo ancora più chiaro, viene proposto alla famiglia. Se quindi questo criterio vale per l’economia di una persona e di una famiglia, può valere anche per quella di una comunità e di un’opera apostolica. Chiara Lubich, fondatrice e presidente del Movimento dei Focolari, nella lezione tenuta in occasione del conferimento della laurea h.c. in Economia (Università Cattolica di Piacenza, 29 gennaio 1999), racconta come è nata l’idea dell’Economia di comunione: «Tipica del nostro Movimento è la cosiddetta “economia di comunione” nella libertà, una particolare esperienza di economia solidale [...] E’ nata in Brasile nel 1991. Il Movimento, presente in quella nazione sin dal 1958, si era diffuso in ogni suo stato, attraendo persone di tutte le categorie sociali. Da qualche anno però, nonostante la comunione dei beni, mi ero resa conto che - data la crescita del Movimento (in Brasile siamo circa 250.000 persone) - non si riusciva a coprire neanche i più urgenti bisogni di certi nostri membri. Mi era sembrato, allora, che Dio chiamasse il nostro Movimento a qualcosa di più e di nuovo. Pur non essendo esperta in problemi economici, ho pensato che si potevano far nascere fra i nostri delle aziende, in modo da impegnare le capacità e le risorse di tutti per produrre insieme ricchezza a favore di chi si trovava in necessità. La loro gestione doveva essere affidata a persone competenti, in grado di farle funzionare efficacemente e ricavarne degli utili. Questi dovevano essere liberamente messi in comune. E cioè in parte essere usati per gli stessi scopi della
prima comunità cristiana:
aiutare i poveri e dar loro da vivere, finché abbiano trovato
un posto di lavoro. un’altra parte per sviluppare strutture di formazione per “uomini
nuovi” (come li chiama l’apostolo Paolo), cioè persone
formate e animate dall’amore, atte a quella che chiamiamo la “cultura del dare”. Un’ultima parte, certo, per incrementare l’azienda [...] L’idea è stata accolta con entusiasmo non solo in Brasile e nell’America Latina, ma in Europa e in altre parti del mondo. Molte aziende sono nate, e molte già esistenti hanno aderito al progetto modificando il proprio stile di gestione aziendale. A questo progetto oggi aderiscono circa 654 aziende e 91 attività produttive minori. Esso coinvolge imprese operanti nei diversi settori economici, in più di trenta paesi: 164 operano nel commercio, 189 sono imprese industriali e 301 operano in altri servizi». Come abbiamo ascoltato, non solo nel passato della Chiesa, ma anche oggi lo Spirito Santo stimola i cristiani a cercare delle vie concrete per attualizzare l’ideale della prima comunità cristiana, non soltanto a livello personale e di una piccola comunità come la nostra, cioè a livello di microeconomia, ma anche a livello aziendale, cioè di macroeconomia. Se vogliamo fare la nostra parte per diventare dei cristiani realizzati che lavorano e faticano per la maggior gloria di Dio e per seguire «più da vicino» il Signore, occorre cercare nuove vie per mettere in pratica il Vangelo anche nell’amministrazione economica della nostra vita personale e comunitaria. Certamente la gestione economica è un aspetto della nostra vita personale e professionale, familiare e comunitaria, che richiede attenzione, prudenza e un serio discernimento. Qui non si tratta di costringere nessuno. Ognuno di noi farà secondo coscienza, in piena libertà e responsabilità. Certo è che il criterio ignaziano per un’economia di comunione ci aiuta a vivere la cultura del dare tipica del Vangelo in tutte le dimensioni della nostra vita, dalle più piccole alle più grandi. Che
cosa comporta la corresponsabilità
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