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Gli strumenti della Che cosa ci chiede la messa in pratica della spiritualità di comunione,
affinché essa sia “principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l'uomo e il cristiano, dove si
educano i ministri dell'altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove
si costruiscono le famiglie e le comunità” (NMI, n. 43)? Cosa potremmo fare, affinché essa diventi un “cammino spirituale”, senza il quale
“a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione.
Diventerebbero apparati senz'anima, maschere di comunione più che sue vie di
espressione e di crescita” (NMI, n. 44)? FRATELLO E
PAROLA
Negli Esercizi spirituali
s. Ignazio di Loyola dice che “l’amore si deve mettere più nelle opere
che nelle parole” (n. 230) e
che esso consiste “nella
comunicazione delle due parti, cioè, nel dare e comunicare l’amante all’amato
ciò che ha, o di ciò che ha o può, a sua volta, l’amato all’amante; in modo
tale che se uno ha scienza, darla a colui che non ce l’ha, se onori, se
ricchezze, e così reciprocamente” (n. 231). La prima cosa da
fare quindi è amare, mettere in pratica l’arte di amare che il Vangelo ci insegna: amare per primo,
amare tutti, amare sempre, vedere Gesù nel fratello, farsi tutto a tutti
eccetto che nel peccato, amare l’altro come me stesso, servire gratuitamente,
tendere alla reciprocità. La seconda cosa
da fare, come espressione di questo amore, sarà parlare: nella spiritualità di comunione la necessità del fratello rende indispensabile la comunicazione interpersonale. Per santificarci
insieme infatti occorre usare la parola. Dovremo allora non solo parlare a Dio (e parlare a Lui del
fratello) nella preghiera personale o comunitaria, ma anche parlare di Dio al fratello nel
dialogo interpersonale e negli incontri di comunità. Qui non si tratta
di “predicare”, ma di rivelare-donare “Dio in me” al fratello attraverso il
mass-media della parola (e per estensione attraverso tutti gli altri mezzi di
comunicazione di massa). Per aiutarci a
questo scopo cercheremo di conoscere più da vicino gli strumenti che Chiara
Lubich propone per vivere concretamente la spiritualità di comunione. Nella
spiritualità di comunione l’uso della parola non esclude i tempi di silenzio
come la meditazione. O gli esercizi spirituali che, proposti secondo la
logica della spiritualità di comunione, devono integrare nel loro programma i
momenti di solitudine e di meditazione silenziosa con quelli di comunione e
di scambio di esperienze, ecc. Silenzio
e parola sono al servizio del raccoglimento e della comunione: di me con Gesù dentro di me e di me
con Gesù fuori di me. Il silenzio e la parola in Dio Uni-TrinitàIl Padre parla e
il Figlio ascolta. Il Padre dice tutto e il Figlio tutto ascolta. Il Padre
dicendo tutto al Figlio gli dona tutto se stesso ed è nel silenzio. Il
Figlio, avendo tutto ascoltato, ridice tutto al Padre, donando le parole
ricevute dal Padre ai discepoli: “le
parole che tu hai date a me io le ho date a loro” (Gv 17,7). E anche
il Figlio è nel silenzio. In questo
silenzio del Padre e del Figlio parla lo Spirito, che nei discepoli ri-parla
al Padre e al Figlio, donando ad essi (discepoli, Padre, Figlio) Il Padre è Padre
nel silenzio del Figlio che riceve tutte le sue parole: il Padre parla nel Figlio.
Il Figlio a sua volta è Figlio nel silenzio dei discepoli che ricevono da Lui
le parole del Padre: il Figlio parla al Padre nei discepoli. Ma questo
dialogo tra il Padre e il Figlio che avviene nei discepoli è Amore, è lo
Spirito. Il Padre e il Figlio dunque si parlano e si amano in un Terzo: lo
Spirito nei discepoli. A loro volta i
discepoli partecipano attivamente a questo Dialogo trinitario. I discepoli sono fratelli del Figlio e figli
del Padre nel silenzio del loro io, cioè nella misura in cui permettono allo
Spirito di incarnare Gesù abbandonato, Parola e SilenzioCome capire Solo Gesù può
spiegarcelo. E in particolare Gesù
abbandonato: Parola del Padre tutta donata agli uomini e parola degli
uomini tutta donata al Padre. Gesù abbandonato non ha più parole da dire né come
Dio né come uomo. Tutto ha dato di sé al Padre e agli uomini. Tutto ha dato
di sé Parola. Rimane solo un grido. E poi il silenzio. Il silenzio di un Dio
morto per amore. Ma allora questo
silenzio non è assenza di parola, ma Parola
incarnata nella sua più alta espressione, è Amore che si dice e si dà
nella sua più alta espressione, che non riesce nemmeno più a
dirSi-comunicarSi, perché non c’è più nulla di Sé da dire-comunicare: ha
detto tutto, ha dato tutto. Ma il Padre,
riconoscendo Se stesso nel Figlio, il suo stesso Amore, il suo stesso Spirito
che tutto dà e comunica di Sé, lo richiama a Sé, alla Vita, come Uomo nuovo.
Ed ecco realizzata in Gesù la “nuova creazione”: Gesù abbandonato
è Silenzio d’Amore che ridona Parola (Se stesso) al Padre e agli uomini,
affinché in Sé Silenzio (Parola tutta data per Amore) il Padre e gli uomini
possano di nuovo dirSi-amarSi-comunicarSi: “essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e
hanno creduto che tu mi hai mandato” (Gv 17,8). Silenzio è Parola e Parola è Silenzio: l’uno e l’altro
espressione-comunicazione dell’unico Amore che è Comunione, appunto,
(r)accoglimento reciproco di uno nell’altro. Raccogliermi nel fratello
Anche noi siamo coinvolti in questo bellissimo
Dialogo trinitario. E ne facciamo l’esperienza quando il nostro amore è
perfetto, cioè quando il nostro io è “zitto” perché morto per amore di Dio e
del fratello. Allora avvertiamo che
il silenzio e la parola, la solitudine e la comunicazione sono “leggeri”,
impregnati di Spirito. Sentiamo di rimanere “raccolti in comunione” con Gesù
dentro di noi e con Gesù nel fratello: E come Lo amo in me, raccogliendomi in esso – quando sono sola – Lo
amo nel fratello quando egli è presso di me. Allora non amo solo il silenzio,
ma anche la parola, la comunicazione cioè del Dio in me col Dio nel fratello.
[...] Occorre sì sempre raccogliersi anche in presenza del fratello, ma non
sfuggendo la creatura, bensì raccogliendola nel proprio Cielo e raccogliendo
sé nel suo Cielo[1]. Noi dobbiamo certamente amare Dio, Gesù nel nostro cuore, dove Egli
è, e nella Santissima Eucaristia, che sempre ci attende; ma dobbiamo amarlo
anche in ogni altra sua presenza che noi conosciamo, e quindi pure in tutti i
fratelli che incontriamo. In essi dobbiamo infatti ravvisare Gesù, quello
stesso Gesù che è presente nel nostro cuore. In tal modo ogni nostro rapporto nella vita non è che con Uno solo,
soltanto con Lui, con Gesù. È questo il mio, il nostro modo specifico di
vivere il: “Sola con Lui solo”, perché tra me e Lui non c’è più nessuno che
faccia da diaframma, anzi sono sin d’ora già come mi troverò in punto di
morte e subito dopo: io e Lui. Ecco, quindi, come attuare il nostro Ideale della perfetta comunione
con i fratelli, che coincide però col perfetto raccoglimento[2]. Io sono chiamato
a vivere sempre con Gesù, ad essere
in ogni momento della mia vita uno con Lui e ad orientare ogni momento verso
questa meta. Ora la mia giornata è fatta di tanti momenti. Alcuni,
come la preghiera, mi mettono in rapporto con Gesù dentro di me; altri con
Gesù fuori di me. Che Gesù sia dentro o sia fuori, Gesù mi chiede sempre è di amarlo. E amarlo significa in uno e nell’altro caso far tacere e mortificare il
mio io. Nella preghiera per
ascoltare la voce di Gesù e parlargli. Con il fratello per ascoltare la voce
di Gesù che mi chiede di mettere da parte tutto quello che non serve ad
amarlo nel fratello. E il fratello io lo incontro in ogni momento: in chiesa,
a scuola, nella riunione di comunità, in corridoio, a pranzo, giocando,
guardando la televisione, studiando, preparando l’apostolato,ecc. E tutti questi
sono momenti nei quali posso “raccogliermi nel fratello” ed essere uno con
Gesù. E se sono uno con Lui tutto è fatto. Affettività, intelletto e volontàSappiamo che però il nostro silenzio e la nostra parola, il nostro raccoglierci l’uno nell’altro, oltre che immersi nella grazia divina e nella nostra buona volontà, sono soggetti ai “disturbi” (condizionamenti) della nostra affettività e al peccato. È importantissimo quindi mettere in atto tutte i mezzi necessari, affinché il nostro silenzio e la nostra parola partecipino del Dialogo trinitario. Occorre cioè tradurre la spiritualità di comunione in “prassi e metodo”. Innanzitutto come
conversione intellettuale che
ci permetta nel concreto della nostra vita di accogliere il fratello e la reciprocità come “luogo
teologico” alla luce del quale ricomprendere tutto il mistero di
Cristo (inteso come rivelazione di Dio e dell’uomo). Si tratta cioè di
fare mia la scelta di Gesù che ha
motivato tutta la sua esistenza: l’altro prima di me. Si tratta di rinnovare l’opzione fondamentale di fede,
mettendo realmente la carità a base della mia esistenza, motivando tutta la
mia vita a partire dalla relazione con il fratello vissuta sulla misura del
“come” Gesù mi ha amato. È la mia
“posizione etico-spirituale” con la quale definisco me stesso definendo
l’altro e la mia relazione con lui. È la mia posizione esistenziale, vitale
nel mondo che poi si traduce in gesti, pensieri, scelte, attività, progetti,
ecc. È il “perché” e il “come” della
mia vita. Riformare la spiritualitàUn secondo
aspetto di questa traduzione della spiritualità di comunione in “prassi e metodo”
è la riforma della “spiritualità”
intesa come esperienza e come metodo. Si tratterà penso di riformare la nostra formazione spirituale, riorganizzando gli strumenti (antichi
e nuovi) che abbiamo a disposizione. È evidente che nella misura in
cui quella “conversione del cuore” sarà profonda e globale, questa ricerca
pedagogica ne sarà un frutto progressivo e spontaneo. In questa ricerca
l’esperienza di Chiara Lubich può aiutarci, perché lei ha già percorso questo
itinerario e Nella sua
esperienza sono emersi infatti alcuni strumenti che si sono rivelati quelli
più propri di una spiritualità di comunione. Il confronto con essi ci aiuterà
a produrre quei necessari cambiamenti, affinché la nostra formazione
spirituale personale e comunitaria sia fedele all’azione dello Spirito e
all’insegnamento della Chiesa. Nei testi che
leggeremo Chiara usa l’espressione “spiritualità collettiva” per indicare la
sua esperienza. Qualche tempo dopo cambiò questa espressione in “spiritualità
di comunione”. GLI STRUMENTI DELLA SPIRITUALITà DI
COMUNIONE
Il pattoIl patto dell’amore scambievole è il passaggio dalla spiritualità “individuale” alla spiritualità “di comunione”. Questo patto va sigillato con la promessa solenne di essere pronti a dare la vita l’uno per l’altro. È una “dichiarazione” nella quale ciascuno manifesta esplicitamente all’altro la sua volontà di amarlo “come” Gesù l’ha amato: “Io sono pronto a morire per te; io per te, tutti per ognuno”. Chiara e le prime focolarine lo fecero per la prima volta nella festa di Cristo Re del 1944. E da allora, in tutto il Movimento, sempre si è ripetuto, ricordato e richiamato all’attenzione di tutti, per ravvivare i rapporti e mantenere fedele il Movimento al carisma ricevuto da Dio: l’unità. Il primo
caposaldo su cui poggia è senz’altro il comandamento nuovo di Gesù: “Amatevi
a vicenda come io ho amato voi” (Gv 15,21). È questa Parola
di Gesù, assieme a quella dell’unità, la base della spiritualità collettiva
perché per attuarla non basta una sola persona. Ne occorrono due o tante, una
collettività, una piccola o grande comunità […] E come facciamo
in particolare? Io direi di ravvivare fra noi questo amore, e perché il nostro
agire abbia serietà, e si segni quasi una nuova tappa nel cammino del nostro
Santo Viaggio, consiglierei a voi e a me di ridichiararci questo amore fra
noi […] Fare come fecero le prime focolarine quando si dissero: “Io sono
pronta a morire per te; io per te”, e cioè tutte per ognuna, gettando così le
fondamenta della nostra Opera. E poi vedere di vivere conseguentemente con
tutta l’intensità. Sapete che
l’unità, mediante l’amore reciproco, non è che si operi una volta per sempre.
Essa va rinnovata ogni giorno mediante propositi e fatti […] È sacra questa
dichiarazione d’amore reciproco, questo patto che vi domando; è solenne,
anche se fatto nella semplicità; e non è privo di difficoltà. Con alcuni,
infatti, sarà facile pronunciarlo; con altri occorrerà, alle volte, vincere
il rispetto umano; con altri occorrerà preparare il terreno. È un atto non
privo di sacrificio perché occorrerà, alle volte, vincere il rispetto umano,
altre, superare l’indolenza o il tran tran spirituale in cui siamo magari caduti.
Bisognerà praticare l’umiltà per far tacere l’amor proprio, pagare, insomma,
il primo costo del passaggio da un modo di vivere individuale ad una spiritualità
collettiva. Ma il Signore
benedirà ogni sforzo e, se poi saremo fedeli a quanto abbiamo detto, ci darà
la gioia di scorgere la sua presenza, effetto dell’unità, dovunque ci
volgiamo[3]. E in un altro passo: È una cosa meravigliosa,
che veramente stupisce tuttora, vedere come Gesù, sin da quando il Movimento
fa i primi passi, spinge noi a sottolineare in maniera tanto forte la frase
di san Pietro: “Soprattutto conservate tra voi una grande carità…” (1Pt 4,8).
Sì, perché questa
è la novità della buona novella: prima di tutto la mutua continua carità. La
carità a base di tutto, anima di tutto, unica capace di dar valore a tutto.
In una lettera del ’48, indirizzata ad un gruppo di religiosi che hanno
compreso e accolto il dono fatto da Dio al Movimento, è scritto: “… prima di
tutto (anche se in questo ‘tutto’ ci fossero le cose più belle, le più sacre:
come la preghiera, il celebrare la santa Messa, ecc., ecc.) siano uno! Allora non
saranno più loro ad agire, a pregare, a celebrare… ma sempre Gesù in loro![4]. Questo patto significa esser pronti a vedere il fratello sempre nuovo, cioè sempre degno di essere amato e capace di amarmi; vuol dire avere pazienza, sopportare, saper sorvolare; significa dare fiducia, sperare sempre, credere sempre, soprattutto non giudicare. Questo patto, che contribuisce a stabilire un rapporto soprannaturale, va poi messo in pratica in tutti i momenti della giornata nei quali il fratello, al quale abbiamo dichiarato di essere pronti a dare la nostra vita, questa vita ce la chiederà nelle tantissime forme e modalità di ogni giorno. Se io sono pronto a dare la mia vita per il fratello, cosa sarà, in confronto alla vita, dare un’ora del mio tempo, un libro, un sorriso, un quaderno di appunti, un’idea apostolica, un’intuizione spirituale frutto della mia preghiera, ecc.? Sarà sempre “meno” della vita, ma in realtà sarà tutta la mia vita in quel momento. La disponibilità a dare la vita si manifesta quindi nel distacco da tutto ciò è “mio” per mettermi al servizio del fratello. Si tratta di saper spostare tutto e dimenticare tutto quanto si fa di bello, di grande, di utile per farsi uno con il prossimo. Questa disponibilità deve sottostare agli atti d’amore che si fanno, affinché essi siano espressione
effettiva della carità cristiana: tutto diventa occasione per
dimostrare al fratello l’intenzione di dare la vita per lui. È una profonda
conversione, è la conversione di ogni momento, è la mia risposta all’amore di
Dio per me, è farmi uno con Questo patto si concretizza nella comunione di beni materiali e spirituali. Vediamo allora gli altri strumenti utili alla messa in comune dei “beni spirituali”. La comunione d’animaSe è una pratica
cristiana, se serve alla nostra santificazione, anche in essa ci dovrà essere
il lato cruciale; anch’essa, come il “patto”, potrà forse costare. Ma è
evidente che, se si è pronti a dare la vita per i fratelli, come con la
grazia di Dio vogliamo, si deve essere disposti almeno ad aprir loro il
proprio cuore. La “comunione
d’anima” va fatta fra noi per rendere comuni i beni spirituali che possediamo,
e concorrere così alla santità altrui come alla nostra. Noi – lo sappiamo –
“siamo” tanto in quanto “siamo per gli altri”. Si mette in comune
tutto quello che è bello ed utile ai fini della santità e non per ultimi i
frutti della nostra meditazione. […] In questo modo ci
si confronta ogni giorno, attraverso la lettura della Sacra Scrittura, di
brani della nostra spiritualità, di scritti dei santi o di documenti della
Chiesa atti allo scopo… Ci si mette alla presenza di Dio; si considera lo
stato della nostra vita spirituale; ci si lascia illuminare da un argomento o
da un altro che abbiamo sott’occhio; si parla con È bene tutto
questo? È ottimo e va fatto sempre meglio, possibilmente ogni volta con
maggiore diligenza. Ma il semplice
far meditazione, anche perfettamente, non è ancora un caposaldo della nostra
spiritualità collettiva. Fanno così e forse meglio di noi, coloro che seguono
spiritualità individuali. E fanno meditazione anche fedeli di altre
religioni. Noi siamo
chiamati a portare beneficio anche degli altri quello che il Signore ci ha
fatto comprendere nella meditazione e quello che è stato il frutto di essa. E
questo si fa nella “comunione d’anima” […] Dobbiamo
ricordare, a nostro incoraggiamento, che quello che non si comunica si perde;
mentre ciò che si dona torna rafforzato nell’anima del donatore oltre che
risultare di utilità per gli altri. Un esempio della
“comunione d’anima” ce lo da Maria di fronte alla cugina Elisabetta. Nel
“Magnificat” Così dobbiamo
fare anche noi, stando attenti che tutto serva unicamente al bene dei fratelli
e che nulla abbia a che fare con la nostra vanagloria[5]. La comunione delle esperienze della Parola di vitaLa “Parola di
vita” è una frase del Vangelo da mettere in pratica che ogni mese Chiara Lubich
commenta. È una pratica a
sé stante risalente [...] ai primi giorni della vita del Movimento […] Per È importantissima
poi È importantissimo
quindi vivere Noi siamo
chiamati a mettere in comune le nostre esperienze su di essa. Perché? Perché
il Signore vuole così in una spiritualità collettiva ed il non praticare
questa comunione è una grave omissione. I santi non dubitano tanto ad
attribuire al nemico degli uomini (al diavolo) questa trasgressione. Sant’Ignazio di
Loyola parla in una sua lettera della “falsa umiltà”, che sarebbe un’arma che
il diavolo usa per danneggiare le persone. Dice: “Vedendo il servitore del Signore
tanto buono e umile che… pensa di essere del tutto inutile… gli fa pensare
che, se parla, di qualche grazia [come sarebbe la luce che viene dal vivere Io aggiungerei
che qualche volta non si pratica la comunione sulle esperienze della Parola
di vita per pigrizia o perché trascinati da un falso attivismo e più portati
quindi a guardare fuori piuttosto che dentro[6]. L’ora della veritàL’ora della verità è lo strumento che più
di ogni altro manifesta l’esigenza e la qualità dell’amore che devono avere
le persone che vogliono vivere la spiritualità di comunione. Si tratta di una
forma particolare di correzione fraterna e di mutua edificazione, due espressioni
dell’amore reciproco già praticate dai primi cristiani (cf. Col 3,16; 2Cor
13,11; Eb 10,24-25). Sappiamo che i
primi cristiani, desiderosi di perfezione per mantenersi alla sequela di
Gesù, ed amanti dei fratelli nei quali avevano piena fiducia, arrivavano
persino a volte a confessare l’uno all’altro i propri peccati. Qui si tratta di
tutt’altra cosa. I peccati noi li diciamo ai confessori, ma, per la carità,
che pure noi nutriamo per i nostri simili e per il desiderio di contribuire a
santificare con noi anche loro, ci impegniamo ad offrire ad essi, con amore,
quanto possiamo osservare in loro di negativo e positivo. È una pratica
esigente, ma serve molto al Santo Viaggio. Nel Movimento si era soliti
attuarla sin dai primi tempi e ne abbiamo tuttora un’impressione assai bella. Il fatto è che un
fratello può essere veramente utile all’altro così come una mano sa lavare
l’altra. Ricordo al proposito un proverbio africano il quale dice che il fratello
è come un occhio che abbiamo dietro. E sta a significare che il fratello vede
dove noi non vediamo. Occorrerà
radunarsi in un gruppo non troppo numeroso, secondo le varie vocazioni
dell’Opera. Perché porti i suoi frutti, occorrerà avere un po’ di tempo a
disposizione ed agire con calma. Dovrà essere presente un responsabile come
moderatore per confermare o correggere quanto viene detto. Sarà bene prima di
ogni altra cosa rinnovare il Patto fra tutti, perché tutto si svolga solo
nell’amore pieno. E con che animo
occorrerà che si disponga chi viene sottomesso al fraterno giudizio degli
altri? Col pensiero di essere sempre un servo inutile e infedele (cf. Lc
17,10), di essere nulla, perché tale è ognuno dinanzi a Dio. Così né si
turberà, né si esalterà per tutto quanto viene detto. Si tirerà poi a
sorte uno del gruppo. E, sotto la guida del moderatore, ogni fratello dirà di
quello scelto qualche difetto, qualche imperfezione, qualche neo che gli
sembrerà d’aver riscontrato in lui. Rifacendo poi il giro, ognuno dirà
qualche virtù, qualche pregio che avrà potuto osservare. Alla fine –
questa la nostra continua constatazione – tutti sono invasi da una grande
gioia e non si sa perché. È, forse, l’esperienza della libertà cristiana;
l’attuazione della Parola: “La verità vi farà liberi” (Gv 8,23). Ma quando e come
si fa “l’ora della verità”? Sarà bene farla una volta ogni tanto [...] È una specie di
cosmesi spirituale. E, come quando si pratica il cosmetico su un volto, toglie
le impurità e rende morbida ed elastica la pelle e dà un senso di benessere,
in modo simile succede per le nostre anime[7]. Il colloquioDurante l’ora
della verità [...] sono i fratelli e le sorelle a dire qualcosa di negativo o
di positivo sul nostro conto. Ma anche se, per certi particolari, il fratello
vede di noi quello che noi non sappiamo vedere, senza dubbio nessuno conosce
meglio noi di noi stessi. Noi siamo a
conoscenza dei nostri desideri di perfezione, delle luci che ci consolano,
dei propositi che di tanto in tanto formuliamo, dei risultati, ma anche delle
ombre che ci turbano, delle paure e della lotte che sosteniamo per andare
avanti. Noi sappiamo – se
lo Spirito ci illumina – a che punto può essere la pianticella della nostra
unione con Dio… E di cose del genere, come si è stato suggerito un’altra
volta, mettiamo al corrente i nostri fratelli nella comunione d’anima. Tuttavia, come,
per mantenere la salute del corpo, non sono sempre sufficienti le nostre cure
ma ci affidiamo a persone esperte come magari per un check-up completo; come
non basta lavare e curare con amore la nostra automobile, per viaggiare
sicuri, ma occorre di tanto in tanto l’occhio esperto di un meccanico, così è
bene controllare, di tempo in tempo, l’andamento della nostra anima con chi
conosce più di noi la vita dello spirito. Ed è per questo
che si consiglia il colloquio con un fratello o con una sorella più avanti di
noi per esperienza o più adatta, per quella grazia particolare che ha nei
nostri riguardi. Ed è per questo
che pure noi saremo alle volte chiamati a fare dei colloqui con qualcuno che
conosce meno di noi la strada della perfezione. Anche Gesù faceva
colloqui con singole persone. Il Vangelo ne riporta alcuni. E sono stati
importanti come i suoi discorsi alle folle [… (cf. Gv 4,1-26; 3,1-21)] È proprio da Lui
che occorre imparare a fare i colloqui. Egli non chiude gli occhi sulla
realtà delle persone che ha davanti: la samaritana peccatrice, Nicodemo, uomo
di pietà, anche se pauroso. E in tutti i casi Egli trova il modo di rivelare
loro le grandi realtà che è venuto a portare al mondo. Così dobbiamo
comportarci nei colloqui che facciamo con i nostri fratelli: dobbiamo partire
dalla loro situazione presente - che verremo a conoscere se ci metteremo
nell’atteggiamento giusto (quello di amarli con tutto il cuore e tutta la
mente) e se saremo totalmente vuoti (come ci insegna il mistero di Gesù
Abbandonato) - perché il fratello possa aprirsi completamente, svuotando nel
nostro cuore la piena che a volte ha nel suo spirito, così che si dia il via
così alla realizzazione, fra noi, di quel rapporto trinitario che dobbiamo
stabilire con lui. Poi, ascoltando
lo Spirito che certamente parla in noi se abbiamo amato, parliamo, pronti non
solo a ridonare la pace e la serenità al fratello, ma a rivelargli
nuovamente, nelle mille sfumature, l’Ideale che un giorno lo ha illuminato
[...] E come dobbiamo
comportarci se siamo noi in posizione di ricevere? È già chiaro. Dobbiamo
disporci anche noi a stabilire con il fratello o la sorella, che è presente
per aiutarci, un rapporto trinitario. Ed anche in questo caso è maestro Gesù
abbandonato, colui che, avendo donato tutto, si è fatto il vuoto. Ma qui occorre
creare il vuoto in noi donando la nostra situazione spirituale con le sue lotte
e le sue vittorie, i suoi regressi e i suoi progressi. E poi, mettendoci
in atteggiamento di ascolto, sicuri che lo Spirito Santo darà la sua luce a
chi ci deve illuminare, e che è soprattutto a Lui, allo Spirito Santo, che
dobbiamo la nostra gratitudine se siamo stati aiutati, sollevati e
incoraggiati. Se tutto
procederà in questo modo, anche qui, come nell’ora della verità, il risultato
sarà una profonda gioia: gioia per la pace ritrovata o aumentata, gioia per
vedere ancora e sempre meglio il nostro cammino dietro a Gesù, causa di ogni
nostra felicità"[8]. Nella
spiritualità di comunione il
direttore spirituale è “Gesù in mezzo” (Gesù in me e nel fratello) che
parla in me e attraverso il fratello. È Lui che nell’unità mi nutre, guida e
dirige verso di Sé. Ed io nella misura in cui sono coinvolto nella dinamica
dell’unità, mi lascio nutrire, guidare e dirigere da Lui. Se nella
spiritualità individuale la condivisione di gruppo è in un certo senso pensata
in funzione della direzione spirituale personale, cioè come un aiuto al
cammino individuale, nella spiritualità di comunione i rapporti si invertono:
la comunione con il fratello prende
il primo posto e il colloquio personale ne diventa un aiuto. Sembra una
sfumatura. È una rivoluzione! È la realizzazione di quella parola di Gesù che
dice: «Ma voi non
fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete
tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è
il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare “maestri”, perché
uno solo è il vostro Maestro, il Cristo» (Mt 23,8-10). bibliografiaChiara
Lubich, Santità di popolo, Città Nuova, Roma 2001. Chiara
Lubich, La spiritualità collettiva e i suoi strumenti, in Unità e Carismi 3-4 (1995) 12-19. Michel
Vandeleene, Io, il fratello, Dio nel pensiero di Chiara Lubich, Città Nuova,
Roma 1999, pp. 269-280. Unità e Carismi 3-4 (1997), 1 (2006). |
[1] C. Lubich, Guardare tutti i fiori, in Nuova Umanità 18 (1996) 133.
[2] C. Lubich, Santità di popolo, Città Nuova, Roma 2001, pp. 80-81.
[3] Ibid., pp. 22-23.
[4] C. Lubich, L’unità e Gesù abbandonato, Città Nuova, Roma 1984, pp. 37-38.
[5] C: Lubich, Santità di popolo, op. cit., pp. 25-27.
[6] Ibid., pp. 28-30.
[7] Ibid., pp. 31-32.
[8] Ibid., pp. 34-36.