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Padre Lorenzo Ricci

In «Lettere dei Prepositi Generali della Compagnia
di Gesù», Tip. Marini e Compagno, Roma 1845,
pp. 130-149

 

Lettera del R. P. Lorenzo Ricci generale
ai padri e fratelli della Compagnia di Gesù
Roma, 24 giugno 1769

 

Lettera del R. P. Lorenzo Ricci generale
ai padri e fratelli della Compagnia di Gesù
che sono in dispersione
Roma, 10 ottobre 1769

 

Lettera del R. P. Lorenzo Ricci generale
ai padri e fratelli della Compagnia di Gesù
Roma, 21 febbraio 1773

 

 

 

 

 

Lettera del R. P. Lorenzo Ricci generale
ai padri e fratelli della Compagnia di Gesù
Roma, 24 giugno 1769

pp. 130-134

 

Nelle dolorose vicende, che hanno sì gravemente afflitta la Compagnia in questi ultimi tempi, non ho mancato al mio dovere, e benché penetrato a un profondo dolore, e bisognoso più di ogni altro conforto nella comune costernazione, ho procurato più volte di animar tutti coi motivi, che ho creduto i più proprii a rassegnarsi con stante pazienza alle divine disposizioni, e a chiedere, e a sperare dalla divina misericordia per li meriti del nostro Divin Redentore, per l’intercessione di Maria Santissima, scelti da me per ispeciali Avvocati presso il Divin Padre, un pronto sollievo dai nostri travagli, o almeno forze e vigore per sostenerli con merito.

 

Né sono state vane le mie premure, né inutili le nostre comuni preghiere. L’invitta costanza e fortezza d’animo mostrata da tanti nostri Fratelli con ammirazione di quanti ne sono stati o testimoni di veduta, o consapevoli per relazione nell’immensi travagli da lor sofferti e in mare e in terra, sono un argomento assai chiaro e dei sodi principii con cui in essi si son regolati, e dello speciale aiuto, con cui Iddio li ha confortati.

 

Non è però piaciuto al Signore d’esaudirci interamente. Lascia che gemiamo tuttavia sotto il grave peso dei suoi flagelli, ossia che non siamo ancora totalmente purgati da questi difetti, ai quali con umile e sincera confessione dobbiamo attribuire come il principio, così ancora la continuazione delle nostre calamità, o sia che compiacendosi della nostra pazienza utile a noi e di tanta sua gloria, vada differendo il nostro sollievo a tempo più opportuno.

 

Comunque sia, giacché a noi non appartiene indagare inutilmente i suoi imperscrutabili giudizi, noi dobbiamo sottometterci umilmente alle divine disposizioni, e aspettare pazientemente, ma insieme pieni di speranza il tempo destinato da Lui per usare con noi delle sue divine misericordie. L’aspetteremo pazientemente se rifletteremo che quanto ci accade di contrario, qualunque siano gl’istrumenti, di cui si serve per compire i suoi disegni, tutto accade per giustissima ordinazione di Dio nostro amorevolissimo Padre, che dirige tutte le sue disposizioni a nostro vantaggi, e a sua gloria.

 

L’aspetteremo pieni di fiducia se rifletteremo non esser mai stato suo costume di abbandonare i suoi figliuoli, che sperano, e si raccomandano a Lui. Con questa viva e filiale fiducia in cuore non cessiamo d’alzar supplichevoli le mani e le voci a Dio, sicuri che exaudiet preces nostras, si manentes permanserimus in ieiuniis et orationibus [Gdt 4,12]. E lo dobbiamo fare con tanto maggior fervore, quanto che alle passate gravissime calamità si aggiungono e sovrastano nuovi e più gravi pericoli, giacché non una o altra parte, ma in questi ultimi tempi, come ad ognuno è noto, tutto il corpo della Compagnia è stato preso di mira.

 

E poiché tutti gli esercizi di pietà già da me altre volte ordinati, e che devono continuarsi sinché piaccia al Signore di muoversi a pietà di noi, sono indirizzati o alla Santissima Vergine, o al Cuore Santissimo di Gesù, vorrei che si praticassero con un particolare impegno e fervore di spirito, e con una certa fiducia, e intima persuasione di dover ottenere ciò che chiediamo. L’impegno lo produrrà la grandezza del pericolo, in cui siamo, e l’amore che tutti portano alla comune loro madre la Compagnia.

 

La fiducia sarà viva in noi, se quando imploriamo il patrocinio di Maria rifletteremo, che essa è Madre di Dio, e Madre nostra; poiché essendo Madre di Dio, grande dee essere il suo potere presso il suo Figlio per ottener ciò, che chiede; essendo Madre nostra, non può non muoversi a compassione in vista delle nostre calamità, e non piegarsi a porgerci la sua mano per liberarcene. Quando poi ci presenteremo a Gesù, o nella visita quotidiana al SS. Sacramento, o nella Festa suo Sagratissimo Cuore, ad avvivare la nostra speranza basta che ci ricordiamo di quell’immenso amore, con cui ci ha amato e ci ama, e che richiamiamo alla memoria quelle dolci parole, con cui mentre viveva fra noi mortale quasi mostrando l’amorevolissimo suo Cuore invitava tutti gli afflitti a ricoverarsi in quello, assicurandoli che in esso avrebbon trovato e sicuro porto nelle loro tempeste, e sollievo ne’ loro travagli, dicendo pieno di tenerezza: Venite ad me omnes, qui laboratis, et onerati estis, et ego reficiam vos [Mt 11, 28].

 

Rammentiamogli queste sue promesse, e sopra di esse fondiamo il giusto titolo che abbiamo di essere liberati dalle nostra gravissime afflizioni. Egli già sa se stesso inclinato e propenso ad usare misericordie non potrà non moversi ad esaudire le nostre suppliche. Che se pure come talvolta usa per esercizio di nostra fede differisse a farlo, mostrando come di non udirci, non ci perdiamo d’animo, ma insistiamo con una santa importunità, che a Lui non dispiace, e diciamogli con fiducia di figliuoli al padre, o col s. David, exsurge, quare obdormis, Domine: exsurge, et adiuva nos [Sal 18 (19),23]; o coi ss. Apostoli, allorché per improvvisa tempesata si videro in manifesto pericolo di naufragare: Salva nos, perimus [Mt 8, 25].

 

E siccome a queste voci il Divin Redentore, che con loro navigava, e dormiva, riscosso dal sonno imperavit ventis, et mari, et facta est tranquilliitas, così possiam sperare che userà con noi. Dobbiamo però guardarci che un eccessivo timore, nato da una troppo vita apprensione del pericolo, non opprima, o sminuisca la nostra fiducia, onde abbia il Signore a fare a noi quel rimprovero, che allora fece agli Apostoli: Quid timidi estis, modicae fidei? Con che volle denotarci, niente essere più capace d’indebolire la forza delle nostre preghiere, quanto la nostra poca fiducia, che tamquam nubes opponitur, né transeat oratio nostra [Thren. III; 44?].

 

A questi esercizi di pietà che dovranno continuarsi con tutto il fervore finché piaccia al Signore di usarci misericordia, quest’anno ordino che si aggiunga la novena al nostro S. P. Ignazio; in essa ogni giorno, oltre le penitenze che potrai prescrivere i Superiori secondo che giudicheranno opportuno , o che ognuno potrà praticare di propria elezione, conforme gli detterà il suo amore alla Compagnia, tutti si raduneranno a fare almeno mezz’ora d’orazione pregando il s. Padre, acciò voglia prendere la difesa di noi suoi figliuoli, e perorare appresso Iddio la causa della Compagnia con tanti stenti da lui fondata a fine di propagare per tutto il mondo la sua gloria, e ora sì combattuta e oppressa.

 

E per impegnarlo maggiormente a nostro favore, desidero che in questa novena ciascuno rientri seriamente in se stesso; e con sincerità di cuore pensi a riformare la sua vita sull’idea, sugli esempio, sugli ammaestramenti da lui lasciatici, sicché il S. Padre abbia a riconoscere se stesso in noi ricopiato. Servirà ancora una tal riforma d’una tacita apologia, ma insieme la più convincente e manifesta che da noi far si possa. In questi tempi, più che in ogni altro, spectaculum facti sumus mundo, et angelis, et hominibus [1 Cor 4, 9]. Tutti hanno gli occhi rivolti a noi, tutti ci osservano attentamente; gli amici per raccogliere dalla nostra regolare condotta l’argomento più forte della nostra difesa; i contrarii per trovar che riprendere in noi, e con che giustificare la loro avversione.

 

Onde prego tutti col più vivo sentimento del mio cuore servendomi delle parole dell’Apostolo s. Paolo ut operam detis, et ut honeste ambuletis ad eos, qui foris sunt [1 Ts 4, 11]. Non dobbiamo contentarci di quella interiore virtù, che ci rende grati agli occhi di Dio, ma dobbiamo inoltre procurare che traspiri e si mostri anche agli occhi degli uomini, sicché osservandoci essi, come purtroppo fanno, con occhio critico nel nostro operare, trattare, e discorrere, ci trovino sì composti, sì misurati, sì dallo spirito di Gesù Cristo sopravvestiti, secondo l’espressione del medesimo Apostolo, che siano costretti a rispettare le nostre operazioni quei medesimi, che sono da noi più alieni ed avversi ut is, qui ex adverso est, vereatur, nihil habens dicere malum de nobis [Tt 2,8].

 

Tanto con ogni maggior efficacia raccomando a tutti, e da tutti spero per quel tenero amore che portano alla Compagnia, la quale più che con le parole ama esser da noi difesa con la santità della nostra vita. Ai vostri santi sacrifici ed orazioni molto mi raccomando.

 

Roma 24 giugno 1769

Di tutti, Servo in Cristo

Lorenzo Ricci

 

 

 

 

Lettera del R. P. Lorenzo Ricci generale
ai padri e fratelli della Compagnia di Gesù che sono in dispersione
Roma, 10 ottobre 1769

pp. 135-144

 

Se io volessi, Padri e Fratelli carissimi nel Signor Nostro Gesù Cristo, parlarvi secondo i sentimenti umani, compiangerei la vostra disgrazia, l’esilio dalle vostre patrie, la lontananza dai parenti ed amici, la dispersione in paesi stranieri, la mancanza di comodità religiose, e mille altri disagi, che sono necessariamente congiunti alla vostra condizione presente. Ed è giusto il compiangerla, dettandoci la natura medesima di unire il nostro dolore e le nostre lagrime al dolore e alle lagrime de’ tribolati. Anzi ancora quella carità, che si diffonde ne’ nostri cuori per opera dello Spirito Santo, c’ispira questi sentimenti di compassione: e Gesù Cristo autore, maestro, ed esemplare di carità si mosse a compassione per la stanchezza delle turbe, che il seguivano, per l’infermità di coloro che gli chiedevano la salute, per le lagrime della vedova di Naim, e pianse egli stesso la morte di Lazzaro, e così c’insegnò coll’esempio ciò che poi dichiarò l’Apostolo delle genti, che conviene alla carità cristiana piangere con quei che piangono: flere cum flentibus: benché il pianto loro cada sopra mali solamente temporali.

 

Dovrei pertanto a voi quest’affetto di tenera compassione, ancorché mi foste estranei e non mi apparteneste se non per titoli comuni a tutti gli uomini: ma no, voi non mi siete estranei, anzi mi appartenete per i più teneri titoli, che congiungano gli uomini col vincolo d’un vero amore, perché amore virtuoso e santo: voi per la professione d’un Istituto medesimo mi siete fratelli ; voi per l’impiego, che Iddio mi ha dato, mi siete figliuoli; e fratelli e figliuoli in Gesù Cristo, che è quanto dire, non per unione naturale ed umana, ma per unione più ferma e più nobile, perché ispirata da Dio, e formata sopra le regole dettate da Gesù Cristo.

 

Ma per questa stessa carità cristiana, dopo essersi sfogata in compassione e dolore per i mali temporali da voi sofferti, mi risveglia nell’animo un nuovo e contrario affetto, e mi muove a consolarmi piuttosto e congratularmi con esso voi pe’ beni spirituali, de’ quali la vostra tribolazione arricchisce le anime vostre. Mi rammento, che Gesù Cristo chiamò beati que’ che piangono; che s. Giacomo ci esorta a stimare riposta tutta la nostra consolazione nelle varie tribolazioni, che ci sorprendono; che David riceveva conforto dalla verga medesima, con cui Dio lo batteva paternamente; che il santo Giobbe non cercava altro sollievo se non che Dio non gli risparmiasse afflizioni e dolori.

 

E mi è noto che similmente la maggior parte di voi (così potess’io dir tutti) animata dallo stesso spirito di fede, avete non solo sostenuto con pazienza, ma ricevuto ancora con allegrezza molti e gravi e lungi patimenti e travagli, e divenuti oggetto parte di disprezzo ed insulto, parte di compassione al mondo, nello stesso tempo siete stati e siete pur ora spettacolo di compiacenza agli Angioli ed a tutto il Paradiso, che si rallegra del trionfo di Gesù Cristo in voi.

 

Imperocché non siete voi, che avete portata in tal maniera la tribolazione, ma la grazia di Dio con voi. Pertanto dopo di aver pianto con quei che piangono, mi rivolgo a godere con quei che godono, ed unisco i miei co’ vostri sentimenti più nobili, anzi co’ sentimenti degli Angeli; e piuttosto che condolermi col mondo de’ vostri travagli, me ne rallegro col Paradiso. E veramente avete ragione di godere delle vostre tribolazioni. I santi godevano delle loro: gli Apostoli partivano allegri dal cospetto del concilio, perché erano stati fatti degni di patir contumelie pel nome di Gesù Cristo: s. Paolo abbondava di godimento in ogni sua tribolazione; e ciascun di noi potrà in somigliante maniera godere per tutto quello che gli tocca di soffrire, si paululum, come diceva il Crisostomo, ex rerum mundanarum fluctibus erexerit caput, se sapremo sollevar lo spirito sopra tutte le cose terrene, ed innalzarlo al cielo, ed ivi tenere co’ santi la nostra conversazione; poiché tutti i dolori sono quaggiù in terra, ed in cielo non vi è che pace e contentezza.

 

Ma per sollevarci così sopra le cose mondane, convien essere di que’ giusti che vivono di fede. La sola fede col suo lume divino ci scopre i tesori nascosti nella tribolazione, e lo scoprimento di questi tesori inonda il cuore di contentezza. Lascio da parte quelle considerazioni, che persuadono la pazienza ne’ travagli, e solo ne rammento alcune che persuadono doversi aggiungere alla pazienza l’allegrezza. E primieramente Iddio ci tiene nella incertezza di esser degni del suo amore, o dell’odio, con santissima providenza, acciocché ognuno procuri di assicurare la sua vocazione ed elezione coll’abbondanza delle opere buone: ma tuttavia egli stesso ha dichiarato alcuni segni della sua amicizia per noi a conforto della nostra speranza. Ora in questa incertezza ogni anima timorata si rallegra di riconoscere in sé i segni dell’amicizia di Dio.

 

Eccovi, Padri e ratelli carissimi, un forte motivo di consolazione. Le tribolazioni, che Iddio manda, sono un segno di benevolenza verso gli uomini, perché sono quella verga, con cui il buon Pastore si adopera di ricondurre all’ovile le pecorelle traviate e contumaci. Ma le tribolazioni che manda a quelli, i quali dopo di aver fedelmente ricercato lo stato attuale dell’anima loro, posson dire coll’Apostolo, nihil mihi conscius sum, (benché debbono aggiungere col medesimo, e con maggior ragione, sed non in hoc iustificatus sum), sono un chiaro segno dell’amicizia di lui. Quos amo corrigo et castigo, dice Dio nell’Apocalisse. S. Paolo afferma, che Dio batte e flagella chiunque egli riceve per figlio: Flagellat omnem filium, quem recipit, fino ad inferirne questa conseguenza: se voi non siete sotto la correzione divina, a cui sono soggetti tutti i figli di Dio, dunque non siete figli legittimi: quod si extra disciplinam estis, cuius participes facti sunt omnes, ergo adulteri, et non filii estis [Eb 12, 8]. E di qui è che egli ha dato più da patire a’ suoi santi più cari; e volle, che il suo Figliuolo naturale patisse più di tutti i figliuoli adottivi, e fosse l’uomo dei dolori, perché egli era il figlio sopra tutti diletto, in cui si compiaceva.

 

Per intendere, che Dio manda i travagli a’ suoi giusti per effetto e sfogo di amore, basta riflettere alle intenzioni di lui in questo tratto di provvidenza. Vuol egli distaccare i suoi amici dalle cose terrene, facendo loro colla esperienza conoscere, che tutte le cose sono manchevoli, e così li conduce con una violenza soave e salutare al disprezzo delle medesime, ed alla stima ed amore dei beni, che sono in cielo, dove non si accostano i ladri e non penetrano le tignuole. Vuole anticipar loro la soddisfazione dovuta per le loro colpe, ed in tal guisa anticipar loro l’ingresso ne paradiso: anzi commutare la soddisfazione dell’altra vita, sterile di merito, nella soddisfazione della vita presente, soddisfazione feconda di vita eterna. Vuole arricchire la loro corona in cielo, dove a misura dei nostri dolori le divine consolazioni rallegreranno le anime nostre. E veramente questi sono gli effetti connaturali della tribolazione; se però cooperiamo noi alla intenzione ed alla grazia di Dio: tribulatio patientiam operatur. Or ditemi, non sono queste tutte finezze dell’amore di Dio? Si rallegrino dunque i giusti dei loro travagli, riconoscendo in essi un pegno di questo amore.

 

Un altro tenerissimo motivo di rallegrarci nei travagli, lo dobbiamo trarre dai dolcissimi fonti del nostro Salvatore Gesù, e ce lo suggerisce s. Ignazio nelle sue Costituzioni. Ma per penetrarlo convien che in noi viva Gesù Cristo, per usar le formule di s. Paolo, convien, che si stimi per niente ogni altra cosa messa in confronto delle eminente scienza di Gesù Cristo, e questo ancora crocefisso. Or chi è animato da questa spirito prova una vera contentezza, ed un sincero ed inesplicabile piacere in vedersi vestito della veste e divisa di Gesù Cristo, nel vedere in se stesso qualche somiglianza di quel perfettissimo originale, in portare le stimmate e la mortificazione di Cristo nel proprio corpo, in vedersi sopra le spalle la croce di lui, in accostare le labbra a quel calice, che Egli bevve.

 

Questo secondo motivo di allegrezza nei travagli ne tira seco un altro consolantissimo. Imperocché se patiremo con Gesù, saremo ancora conglorificati con Gesù: si sustinebimus, et conregenabimus. Non ne possiamo dubitare: la speranza che nasce dalla sofferenza delle tribolazioni non confonde giammai: vi è una promessa, che non può mancare: verrà pure il tempo, in cui la nostra malinconia si convertirà in godimento, e sarà quando lo spirito di Dio ci dirà, che riposiamo dalle nostre fatiche; perché le opere buone ci seguono fedelmente dopo la morte. Colla speranza di vedere il suo Redentore vivente si consolava il pazientissimo Giobbe, con la medesima tutti quei giusti travagliatissimi, de’ quali il mondo non era degno, rammentandosi di avere in cielo una migliore e permanente sostanza. È necessario che il grano di frumento sia calpestato, mortificato, e disfatto in terra, acciò produca un frutto abbondante; è necessario che sia innaffiato colle nostre lacrime il seme di vita eterna, acciocché possiamo con esultanza portare a suo tempo ricchi manipoli di gaudio e di gloria.

 

Queste sono le considerazioni, che nel mezzo dei dolori del corpo, e delle afflizioni stesso di spirito spargono nell’intimo dell’animo un affetto di allegrezza pura e viva, accoppiandosi i due sentimenti, che sembrano contrari, per un prodigio, che la sola divina grazia può operare. Confido in Dio, che non sia veruno infra voi, qui non hac exercitatione profecerit, et in abdito conscientiae suae aliquid, quo possit recte gaudere, condiderit [Serm. S. Leo de Resurrect.]. Anzi confido, che multos sibi patientiae thesaurus humilitas, modestia, et tolerantia congregaverit [ib. ep. 139]. Ma questi tesori, seguiterò a parlarne con s. Leone, di cui sono le parole citate, perseveranti sunt servandi custodia, ne in desidiem resoluto labore, quod donavit Dei gratia, diaboli furetur invidia. Il nostro tesoro è riposto in vasi di creta fragile, e il nostro invidioso nemico ci tende insidie per toglierci ciò, che ci donò la grazia di Dio.

 

Custoditelo adunque con molta cura, mantenetevi nella dolce ed allegra pazienza: non è atto al regno di Dio chi si rivolge indietro dopo aver messa mano all’aratro; non sarà salvo chi cominciò ad operar bene, se non persevera sino alla fine: siate fedeli fino alla morte, e Dio vi darà la corona di gloria. Sic currite, ut comprehendatis; camminate costantemente per la strada intrapresa sinché giungiate a quel termine, a cui v’invita la vostra vocazione superna. Finalmente la tribolazione dura pochi momenti, ed è leggiera se si mette a confronto del peso eterno di gloria, che opera in voi.

 

Ma non basta Padri e Fratelli carissimi, la perseveranza nel tollerare la tribolazione. Le opere di Dio debbono essere perfette, e la vostra tolleranza, che è certamente opera di Dio, lo sarà se per voi non manca, se coopererete per vostra parte acciò Egli conduca a perfezione ciò che in voi ha cominciato. Sarebbe inutile la vostra pazienza se non fosse congiunta con l’adempimento fedele degli altri vostri religiosi doveri; avvisandovi lo Spirito Santo, che quicumque ofendit in uno, factus est omnium reus. Imperocché, siccome avverte s. Giacomo, quello stesso Signore, che vi comanda di soffrire i vostri travagli pazientemente, vi comanda ancora di osservare quelle sante leggi, alle quali per suo amore vi soggettaste.

 

Quest’avvertenza è necessaria, perché le vostre presenti circostanze vi pongono in maggior pericolo di trasgressione. Non può la vigilanza dei Superiori custodire l’ordine della disciplina domestica con quella efficacia, con cui potea custodirvi ne’ Collegi; ed anche la compassione inclina a diminuire il peso della consueta osservanza in compenso delle angustie presenti. Anzi le leggi ancora più gravi e più sacrosante, ed i Voti stessi offerti a Dio sono esposti a straordinari pericoli. La legge della vita comune, tanto gelosa e rilevante tra noi, si crederà aver eccezione dalla necessità. Questa stessa necessita potrebbe forse ingannare alcuni e persuaderli l’errore, che fosse loro lecito disporre del temporale con indipendenza da’ Superiori, o procurarsi soccorsi con maniere poco decenti a persone religiose, o col pretesto di provvedere ai casi fortuiti raccogliere, e conservare per uno spirito di secreta avidità.

 

Ma oltreché si farebbe torto a Dio, il quale sa i nostri bisogni, ed ha promesso di aggiungere le altre cose a chi cerca il suo regno, gli si farebbe eziandio quella rapina, che tanto abomina nell’olocausto da noi offertogli col voto della povertà! E perché le circostanze medesime diminuiscono i mezzi, e perciò ancor la forza all’autorità de’ Superiori, sono i sudditi nel pericolo di abusare del tempo, e violare l’obbedienza, che è migliore d’ogni vittima, e che forma il carattere d’un vero figlio della Compagnia. Il giglio ancora della purità, che offeriste al sacro altare in odore di soavità, nello stato vostro presente ha minori difese, ed è più esposto.

 

Questi sono i pericoli vostri, Padri e Fratelli carissimi, che mi tengono in sollecitudine per voi; ma non sono pericoli riguardo a quelli che operano per movimento dello Spirito di Dio, e regolano la condotta della lor vita con le massime eterne; questi non han bisogno di esser costretti coi mezzi esteriori, ma solamente regolati e diretti. Essi sono que’ giusti, a’ quali si dice, che non è data la legge; quelli che fanno di se medesimi a Dio un sacrificio non forzato, ma volontario; quelli che donano a Dio, non ex tristitia, neque ex necessitate, ma con pienezza di volontà.

E tali appunto desidero, che siate voi tutti, rammentadovi di quelle belle parole, con le quali s. Ignazio dà principio alle sue Costituzioni, e ci avverte che la Compagnia nostra hassi da conservare e governare per l’interna legge della carità, che lo spirito Santo suole scrivere ed imprimere ne’ cuori più tosto che per esterni regolamenti. Mancano in parte a voi gli esterni regolamenti, supplisca adunque l’interna legge della carità; sia anzi più esatta la vostra osservanza, ma insieme più soave, e più amorosa e perciò più preziosa nel cospetto di Dio. Tentat vos Dominus, Padri e Fratelli miei; Iddio fa prova della vostra fedeltà, e vuol far conoscere a voi medesimi, se siete osservanti per amor suo, ovvero per umani riguardi.

 

E veramente non possono, se non per movimento di amore mettersi in pratica le regole più preziose, che ci prescrive s. Ignazio, e che formano la sostanza del nostro Istituto. Richiamatele alla memoria. Si dee lasciar tutto ciò, che si avea nel mondo per seguir Cristo [Reg. 8: Cost. 61]; si dee aborrire in tutto e non in parte ciò che il mondo ama ed abbraccia ad amare ed abbracciare ciò, che Cristo Signor nostro amò ed abbracciò; sicché ad esempio di lui si aborrisca l’abbondanza, l’onore, il comodo, e per contrario si ami il disprezzo, lo stento, la povertà [Reg. 11: Cost. 101]. Si dee cercare in tutto la maggiore annegazione, e la continua mortificazione di noi medesimi [Reg. 12: Cost.103].

 

Queste sono le nostre regole fondamentali; queste contengono la perfezione del nostro stato; l’osservanza di queste ci rende veri figli di s. Ignazio, eredi del suo spirito, e vivi membri della Compagnia; ove queste si osservino, tutte le altre parimenti si osserveranno. Noi le abbiamo spesse volte udite, noi abbiamo spesse volte nel fervore de’ nostri spirituali ritiramenti desiderato e proposto di praticarle, e ci siamo rimproverati di non essere egualmente solleciti nell’adempimento di queste, come forse lo siamo nella esecuzione di quelle, che riguardano la disciplina esteriore.

 

Ora Iddio ce ne pone in mano la pratica, ed a noi non resta, che di formarci della necessità un esempio di virtù. A bene intenderla, questa è una industria amorosa di Dio per conduci alla perfezione richiesta dal nostro stato: ma non può operare l’esecuzione di queste regole, né secondare le intenzioni divine, se non lo spirito di carità, che sola ha dominio sul cuore, da cui o unicamente, o principalmente dipende l’adempimento di queste osservanze.

 

Tornando adesso al principale argomento di questa lettera, mi pare, che altro non resti per compimento della vostra contentezza nella tribolazione, che di acquistare un desiderio, che amareggia lo spirito de’ più ferventi, i quali mal volentieri soffrono di non poter giovare a’ prossimi colla predicazione, ed altri ministeri proprii del nostro Istituto. Mi piace lo zelo, che vi tormenta, mi consola il desiderio della fatica, e l’ardore di promovere l’onore divino, e il vantaggio delle anime; ma le passioni anche più sante debbono essere subordinate al volere divino. E veramente in che consiste il culto, che dobbiamo a Dio, in che il suo servigio, e per conseguenza la nostra perfezione e santità, se non nel volere con pienezza di cuore quello, che piace a Dio? Quomodo colitur Deus, dice s. Leone [Serm. 18 de ieiun. dec. mens.], nisi ut quod ipsi placet, placet et nobis? Ora la volontà di dio è egualmente amabile nell’ozio, e nella fatica: amate dunque non già l’ozio, ma nell’ozio il volere divino.

 

Inoltre poi potete giovarvi vicendevolmente, ed animarvi alla fortezza ne’ travagli, al disprezzo del mondo, alla carità fraterna, ed all’esercizio d’ogni altra virtù; ed in tal modo promovere l’onor divino e ‘l profitto delle anime presso di quelli, che più vi appartengono, perché vi sono domestici. E quanto agli altri, se non potete giovare ad essi colle parole, potete giovar loro coll’esempio di una vita irreprensibile, potete lor giovare coll’orazione. La vostra sofferenza, la rassegnazione al divin volere sarà la vostra predicazione, forse a Dio più gloriosa, più utile al prossimo, e più sicura per voi, perché meno soggetta alla vanità.

 

E giacché vi mancano altre occupazioni per operare la salute delle anime, moltiplicate le preghiere per impetrarla da Dio, ed impiegate in orazioni fervorose parte di quel tempo che impieghereste in udir confessioni e disporre prediche. Iddio sente volentieri le orazioni dei poveri, degli umili, de’ tribolati; quanto maggior numero di anime guadagnerete a Dio col fervore dell’orazione, che non guadagnereste con lo strepito della voce.

 

Ma le mire principali di Dio nelle disposizioni, che ha fatte, sono di formarsi molti santi fra voi. Quello che a tutti i fedeli dice l’Apostolo, haec est voluntas dei, sanctificatio vestra, appartiene specialmente a voi. Non vogliate defraudare la sua amorevole volontà, né vogliate privar voi medesimi di tanto bene, né ricevere in vano la grazia divina. Nessun sia tra voi che ambisca impieghi onorevoli, e preferenze e stima e lode: nessun che dia opera di procurarsi comodità.

 

Iddio vi ha tolta in gran parte la materia di questi miseri affetti, acciocché più facilmente distacchiate l’animo da queste piccole vanità indegne delle nostre premure. Sia il vostro tesoro in cielo, ed ivi sia il vostro cuore: tutti i vostri pensieri si occupino nel servigio di Dio e nel vantaggio delle vostre anime; e dica ognuno col s. David, Tribulatio et angustia invenerunt me, mandata tua meditatio mea est. In tal maniera la presente tribolazione sarà da voi sofferta nel tempo con allegrezza, e vi sarà argomento d’immenso piacere nell’eternità, giacché come dice lo stesso Profeta, nelle tribolazioni de’ giusti, altro non vi è, né di altro si parla, che di giubilo e di salute. Vox exultationis et salutis in tabernaculis iustorum. Il Signore ve la conceda, e voi impetratela a me ne’ vostri SS. Sacrifizi ed orazioni.

 

Roma, 10 ottobre 1769

Di tutti Servo in Cristo

Lorenzo Ricci

 

 

 

 

Lettera del R. P. Lorenzo Ricci generale
ai padri e fratelli della Compagnia di Gesù
Roma, 21 febbraio 1773

pp. 145-149

 

Ci avverte il santo profeta David di tenere nelle nostre necessità costantemente gli occhi rivolti a Dio, finché egli muovendosi a pietà di noi venga a darci soccorso. Oculi nostri semper ad Dominum Deum nostrum, donec misereatur nostri. Confido, Padri e Fratelli carissimi nel Signore, della vostra perseveranza nelle orazioni richieste altre volte dal vostro amore per la Compagnia afflitta da sì lungo tempo. Ma se non ha bisogno il vostro amore verso la Compagnia di essere nuovamente eccitato alle preghiere, richiede il mio dolore che io ve ne rinnovi gli stimoli.

 

Vedo con mia confusione, che il Signore non si è degnato finora di stendere l’onnipotente sua mano a nostro sollievo. È ben vero, che egli ci dà mille pegni di sua amorosa misericordia, ed in mille maniere ci fa sperimentare la sua speciale, e dire quasi, la sua miracolosa assistenza; ma pure lascia libero il corso ai nostri travagli. Adoro i suoi giudizi sempre giustissimi, ne riconosco la cagione nelle nostre, e specialmente nelle mie colpe, e gli dico con sincera confessione: Omnia quae fecisti nobis, Domine, in vero sudicio fecisti. Ma che? Si dimenticherà egli forse per questo di usare misericordia il nostro Dio, la natura di cui è la stessa bontà? Numquid obliviscetur miserere Deus?

 

Sappiamo anzi, che nell’esercizio medesimo della sua collera egli si rammenta della sua grandissima misericordia; sappiamo che gli effetti di questa avanzano di lunga mano le operazioni di sua giustizia e di ogni altro suo attributo. Pertanto lo prego, e voi pure pregatelo, a rammentarsi della nostra fragilità e fiacchezza, e a moversene a compassione; pregatelo, che, se pur vuole la sua giustizia rimirar le nostre colpe, le rimiri nel suo figliuolo Gesù, che se le addossò tutte, e prese a soddisfare per esse con tanto eccesso e abbondanza di soddisfazione; e finalmente pregatelo a darci quel cuore umiliato e contrito, che egli non disprezza mai, e non rigetta da sé.

Non devono dunque le nostre colpe impedirci nel confidare vivamente, che Iddio voglia dar gloria al suo santo Nome, usando con noi secondo l’inclinazione di sua infinita misericordia; molto meno debbono indebolire la nostra fiducia quelle circostanze che ci atterriscono, anzi, se le intendiamo bene, queste medesime devono maggiormente animarla.

 

Noi siamo privi di ogni soccorso umano; dunque Iddio riserva a sé solo la cura di noi, e non vuole che riconosciamo da altri il nostro sovvenimento. Questa è una tenerezza di amore, che egli ci sua a disingannarci del mondo, e non vuole che i nostri cuori dividano con altri o la fiducia o la gratitudine.

 

Ma per questa ragione medesima sarà maggiore il trionfo di sua misericordia, perché più chiaro e visibile. E noi di che temeremo, se Iddio si fa nostro scudo e nostra difesa? Anzi l’abbandonamento ci giova; perché Iddio ci dichiara di voler egli essere il Padre degli orfani, e il sostegno dei derelitti.

 

Con questi sentimento di umiltà e di confidenza, ma sentimenti vivi e sinceri, alziam le mani e gli occhi al cielo, dove abita quel Signore, che si gloria d’intitolarsi aiutatore opportuno nelle tribolazioni, pregando conforto e sollievo. Ma l’orazione vuole inoltre essere fervorosa. Il santo David ne’ suoi salmi che sono una istruzione pratica della vera orazione, spessissime volte ripete, che dal profondo delle sue tribolazioni pregava non già con voce bassa, ma con alte grida e clamori: De profundis clamavi ad te, Domine. Ad Dominum cum tribularer clamavi. Ed in molti luoghi usa lo stesso termine.

 

Questi gridi e clamori significano il fervore, con cui conviene orare. Non vi è bisogno che vi esponga quanto sieno grandi le afflizioni, che patisce la Compagnia: a tutti è noto che i danni e i timori giungono al sommo. Il desiderio di vedervela liberata è proporzionato all’amore grande che voi le portate; e giustamente, perché da lei siete stati istruiti e incamminati nelle vie della salute e della perfezione, beneficio di cui non ve n’è alcuno maggiore e più interessante.

 

Rimane che le nostre preghiere si facciano in nome di Gesù Cristo; poiché questo ancora si richiede acciò siano efficaci ed atte a muovere il cuore del Divin Padre, e conforme a quello che disse lo stesso Gesù: Quidquid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis. Ma chi può dubitare che queste nostre preghiere si facciano in nome di Gesù Cristo? Chiedere in nome di Gesù, come spiega s. Agostino, è chiedere ciò che giova e conduce alla nostra eterna salute. E noi che altro chiediamo, mentre si prega per la conservazione della Compagnia, e per la conservazion nostra nella Compagnia?

 

Domandiamo di mantenerci in quella vocazione, con cui Iddio ci chiamò a questo istituto, appunto per nostra salute, istituto pio, lodevole, sommamente fruttuoso, e adattato a promuovere l’onor di Dio e la salute delle anime, come lo hanno dichiarato la Chiesa e i Vicarii di Gesù Cristo: domandiamo di compiere le promesse fatte a Dio coi voti religiosi, di vivere secondo le leggi che ci ha prescritto un santo sommamente zelante della salute delle anime, illuminato a formarle al lume soprannaturale e celeste, leggi tratte dalla dottrina della divina Sapienza, e copiate dal santo Vangelo, come si fa palese a chiunque le considera con attenzione: domandiamo finalmente di camminare sulle pedate di molti santi e di tanti grandissimi servi di Dio, i quali con l’osservanza appunto di quelle leggi si sono sollevati ad un’altissima perfezione, hanno raccolto un cumolo di immenso di meriti, ed acquistata in cielo una felicità e gloria singolarissima. Quanta fiducia dee ispirarci il riflettere che le nostre preghiere si fanno veramente in nome di Gesù Cristo, e il ricordarci che niente si nega alle preghiere che si fanno in nome di Lui.

 

Ma oltre alle condizioni accennate, che sono intrinseche all’orazione, una estrinseca condizione giova grandemente a darle forza ed accrescerne l’efficacia. L’innocenza di una vita incolpabile, l’accompagnamento di molte opere virtuose e sante, quanto aggiungono di valore alle nostre preghiere! Le suppliche che si portano ai principi dai loro favoriti sono accolte più volentieri, ed aggraziate più facilmente; e le orazioni che si porgono a Dio da anime pure e sante, che sono le sue favorite, conseguiscono agevolmente i beneficii ancor più singolari, sino a dispensarsi talora in grazia di esse alle leggi più rigorose della natura ed operarsi miracoli.

 

Sicché quanto più cresceremo nell’amicizia di Dio coll’innocenza e santità della vita, tanto più daremo di peso e di efficacia alle nostre orazioni; gli Angeli le porteranno più volentieri al trono di Dio, e i Santi, che noi prendiamo per intercessori, uniranno con impegno maggiore le preghiere loro alle nostre. S. Ignazio specialmente, e le tante altre anime beate della Religione che sono in cielo, ed amano adesso con maggior vivezza quell’Istituto che ve le ha condotte, saranno più sollecite di ottenere il rescritto favorevole alle suppliche di quelli che osservano con fedeltà l’Istituto medesimo.

 

Animate adunque, Padri e Fratelli carissimi, le vostre preghiere con l’esattezza e fervore in ogni esercizio di devozione, con la carità vicendevole tra voi medesimi, con l’ubbidienza e rispetto a quelli, che sono in luogo di Dio, con la sofferenza delle fatiche, dei travagli, della povertà, delle ingiurie, con la ritiratezza, con la prudenza e semplicità evangelica nel conversare, con la esemplarità delle operazioni, con la pietà dei ragionamenti.

 

La Compagnia ravvivata da questo spirito è quella di cui chiediamo la conservazione. Se ella fosse per rimaner priva di questo spirito, potrebbe pur cessare di essere, poiché diverrebbe inutile a quel fine, per cui fu formata. Quelli che non procurassero di accendere in sé questo spirito, e più ancora quelli che si adoperassero di estinguerlo in altri, ispirando il contrario spirito di rilassatezza, di orgoglio, di dissensione, di disubbidienza, di ardire, porterebbero la vera rovina della Compagnia con detrimento inestimabile dell’onor di Dio, della salute de’ prossimi e della propria. Ma tolga Iddio, che ve ne sia mai tra noi veruno.

 

Eccovi, Padri e Fratelli carissimi, la mia dimanda, e tutto il motivo di scrivervi questa lettera. Vi chiedo orazioni, ma quali ve le ho descritte, ve le chiedo a nome di tutta la Religione; le chiedo per la Religione medesima, e finalmente per voi stessi, per cosa, che vi è carissima, per cosa che è del vostro massimo interesse, per cosa di cui nessun’altra vi dee stare maggiormente a cuore.

Non penso di prescrivere nuove orazioni; raccomando bensì di continuare quelle che prescritto altre volte, e specialmente la visita quotidiana al SS. Sacramento, la quale vorrei che si perpetuasse nella Compagnia. Le straordinarie orazioni che si richiedono alle urgenze presenti le lascio alla libertà di ciascheduno, e all’amore che ciascheduno porta alla Compagnia; e potranno anche prescriversi da’ Superiori per tempo determinato. E senza più mi raccomando ne’ vostri SS. Sacrifizi ed orazioni.

 

Roma 21 febbraio 1773

Di tutti Servo in Cristo

Lorenzo Ricci

 

 

 

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