Che cosa ci chiede
la messa in pratica della spiritualità di comunione, affinché essa sia
«principio
educativo in tutti i
luoghi dove si plasma l'uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell'altare,
i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le
comunità» (NMI, n. 43)
Cosa
potremmo fare affinché essa diventi un «cammino spirituale», senza il quale «a ben poco servirebbero gli
strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz'anima,
maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita» (NMI, n.
44)?
Negli Esercizi spirituali s. Ignazio di
Loyola dice che
«l’amore si deve mettere più nelle opere
che nelle parole» (n. 230) e
che esso consiste «nella
comunicazione delle due parti, cioè, nel dare e comunicare l’amante all’amato
ciò che ha, o di ciò che ha o può, a sua volta, l’amato all’amante; in modo
tale che se uno ha scienza, darla a colui che non ce l’ha, se onori, se
ricchezze, e così reciprocamente» (n. 231).
La prima cosa da
fare quindi è amare, mettere in pratica l’arte di amare che il Vangelo ci in-segna: amare per primo,
amare tutti, amare sempre, vedere Gesù nel fratello, farsi tutto a tutti
eccetto che nel peccato, amare l’altro come me stesso, servire gratuitamente,
tendere alla reciprocità.
La seconda cosa
da fare, come espressione di questo amore, sarà parlare: nella spiritualità di comunione la necessità del fratello rende indispensabile la comunicazione interpersonale.
Per santificarci
insieme infatti occorre usare la parola. Dovremo allora non solo parlare a Dio (e parlare a Lui del
fratello) nella preghiera personale o comunitaria, ma anche parlare di Dio al fratello nel
dialogo interpersonale e negli incontri di comunità.
Qui non si tratta
di «predicare», ma di rivelare-donare «Dio in me» al fratello attraverso il
mass-media della parola (e per estensione attraverso tutti gli altri mezzi di
comunicazione di massa).
Per aiutarci a
questo scopo cercheremo di conoscere più da vicino gli strumenti che Chiara
Lubich propone per vivere concretamente la spiritualità di comunione.
Nella
spiritualità di comunione l’uso della parola non esclude i tempi di silenzio
come la meditazione. O gli esercizi spirituali che, proposti secondo la
logica della spiritualità di comunione, devono integrare nel loro programma i
momenti di solitudine e di meditazione silenziosa con quelli di comunione e
di scambio di esperienze, ecc. Silenzio
e parola sono al servizio del raccoglimento e della comunione: di me con Gesù dentro di me e di me
con Gesù fuori di me.
Il Padre parla e
il Figlio ascolta. Il Padre dice tutto e il Figlio tutto ascolta. Il Padre
dicendo tutto al Figlio gli dona tutto se stesso ed è nel silenzio. Il
Figlio, avendo tutto ascoltato, ri-dice tutto al Padre, donando le parole
ricevute dal Padre ai discepoli: «le
parole che tu hai date a me io le ho date a loro» (Gv 17,7). E anche
il Figlio è nel silenzio.
In questo
silenzio del Padre e del Figlio parla lo Spirito, che nei discepoli ri-parla
al Padre e al Figlio, donando ad essi (discepoli, Padre, Figlio) la Parola tutta espressione
di Amore (la Parola
raggiunge la sua piena capacità comunicativa perché esprime il suo contenuto
più profondo: amore).
Il Padre è Padre
nel silenzio del Figlio che riceve tutte le sue parole: il Padre parla nel
Figlio. Il Figlio a sua volta è Figlio nel silenzio dei discepoli che
ricevono da Lui le parole del Padre: il Figlio parla al Padre nei discepoli.
Ma questo dialogo tra il Padre e il Figlio che avviene nei discepoli è Amore,
è lo Spirito. Il Padre e il Figlio dunque si parlano e si amano in un Terzo:
lo Spirito nei discepoli.
A loro volta i
discepoli partecipano attivamente a questo Dialogo trinitario. I discepoli sono fratelli del Figlio e figli
del Padre nel silenzio del loro io, cioè nella misura in cui permettono allo
Spirito di incarnare la
Parola «in loro», di farla ritornare al Padre «incarnata».
È l’apertura dei discepoli a questo movimento della Parola che li rende
capaci di parlare al Padre e di ascoltare il Padre.
Come capire la Parola e il Silenzio che
formano il Dialogo trinitario? Chi ci può spiegare questo mistero?
Solo Gesù può
spiegarcelo. E in particolare Gesù
abbandonato: Parola del Padre tutta donata agli uomini e parola degli
uomini tutta donata al Padre. Gesù abbandonato non ha più parole da dire né
come Dio né come uomo. Tutto ha dato di sé al Padre e agli uomini. Tutto ha
dato di sé Parola. Rimane solo un grido. E poi il silenzio. Il silenzio di un
Dio morto per amore.
Ma allora questo
silenzio non è assenza di parola, ma Parola
incarnata nella sua più alta espressione, è Amore che si dice e si dà
nella sua più alta espressione, che non riesce nemmeno più a
dirSi-comunicarSi, perché non c’è più nulla di Sé da dire-comunicare: ha
detto tutto, ha dato tutto.
Ma il Padre,
ri-conoscendo Se stesso nel Figlio, il suo stesso Amore, il suo stesso
Spirito che tutto dà e comunica di Sé, lo ri-chiama a Sé, alla Vita, come
Uomo nuovo. Ed ecco realizzata in Gesù la «nuova creazione»: la Trinità in noi e
in mezzo a noi.
Gesù abbandonato
è Silenzio d’Amore che ri-dona Parola (Se stesso) al Padre e agli uomini,
affinché in Sé Silenzio (Parola tutta data per Amore) il Padre e gli uomini
possano di nuovo dirSi-amarSi-comunicarSi: «essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e
hanno creduto che tu mi hai mandato» (Gv 17,8).
Silenzio è Parola e Parola è Silenzio: l’uno e l’altro
espressione-comunicazione dell’unico Amore che è Comunione, appunto,
(r)accoglimento reciproco di uno nell’altro.
Raccogliermi nel
fratello
Anche
noi siamo coinvolti in questo bellissimo Dialogo trinitario. E ne facciamo
l’esperienza quando il nostro amore è perfetto, cioè quando il nostro io è
«zitto» perché morto per amore di Dio e del fratello.
Allora
avvertiamo che il silenzio e la parola, la solitudine e la comunicazione sono
«leggeri», impregnati di Spirito. Sentiamo di rimanere «raccolti in
comunione» con Gesù dentro di noi e con Gesù nel fratello:
E come Lo amo
in me, raccogliendomi in esso – quando sono sola – Lo amo nel fratello quando
egli è presso di me. Allora non amo solo il silenzio, ma anche la parola, la
comunicazione cioè del Dio in me col Dio nel fratello. [...] Occorre sì
sempre raccogliersi anche in presenza del fratello, ma non sfuggendo la
creatura, bensì raccogliendola nel proprio Cielo e raccogliendo sé nel suo
Cielo.
Noi dobbiamo
certamente amare Dio, Gesù nel nostro cuore, dove Egli è, e nella Santissima Eucaristia,
che sempre ci attende; ma dobbiamo amarlo anche in ogni altra sua presenza
che noi conosciamo, e quindi pure in tutti i fratelli che incontriamo. In
essi dobbiamo infatti ravvisare Gesù, quello stesso Gesù che è presente nel
nostro cuore.
In tal modo
ogni nostro rapporto nella vita non è che con Uno solo, soltanto con Lui, con
Gesù. È questo il mio, il nostro modo specifico di vivere il: “Sola con Lui
solo”, perché tra me e Lui non c’è più nessuno che faccia da diaframma, anzi
sono sin d’ora già come mi troverò in punto di morte e subito dopo: io e Lui.
Ecco, quindi,
come attuare il nostro Ideale della perfetta comunione con i fratelli, che
coincide però col perfetto raccoglimento[2].
Io sono chiamato
a vivere sempre con Gesù, ad essere
in ogni momento della mia vita uno con Lui e ad orientare ogni momento verso
questa meta. Ora la mia giornata è fatta di tanti momenti. Alcuni,
come la preghiera, mi mettono in rapporto con Gesù dentro di me; altri con
Gesù fuori di me. Che Gesù sia dentro o sia fuori, Gesù mi chiede sempre è di amarlo.
E amarlo significa in uno e nell’altro caso far tacere e mortificare il
mio io. Nella preghiera per
ascoltare la voce di Gesù e parlargli. Con il fratello per ascoltare la voce
di Gesù che mi chiede di mettere da parte tutto quello che non serve ad
amarlo nel fratello. E il fratello io lo incontro in ogni momento: in chiesa,
a scuola, nella riunione di comunità, in corridoio, a pranzo, giocando,
guardando la televisione, studiando, preparando l’apostolato,ecc.
E tutti questi
sono momenti nei quali posso «raccogliermi nel fratello» ed essere uno con
Gesù. E se sono uno con Lui tutto è fatto.
Sappiamo che però il nostro silenzio e la nostra parola,
il nostro raccoglierci l’uno nell’altro, oltre che immersi nella grazia
divina e nella nostra buona volontà, sono soggetti ai “disturbi” (condizionamenti) della nostra
affettività e al peccato.
È importantissimo quindi mettere in atto tutte i mezzi
necessari, affinché il nostro silenzio e la nostra parola partecipino del
Dialogo trinitario. Occorre cioè tradurre
la spiritualità di comunione in «prassi e metodo».
Innanzitutto come
conversione intellettuale che
ci permetta nel concreto della nostra vita di accogliere il fratello e la reciprocità come «luogo
teologico» alla luce del quale ri-comprendere tutto il mistero di
Cristo (inteso come rivelazione di Dio e dell’uomo).
Si tratta cioè di
fare mia la scelta di Gesù che ha
motivato tutta la sua esistenza: l’altro prima di me. Si tratta di rinnovare l’opzione fondamentale di fede,
mettendo realmente la carità a base della mia esistenza, ri-motivando tutta
la mia vita a partire dalla relazione con il fratello vissuta sulla misura
del “come” Gesù mi ha amato.
È la mia
«posizione etico-spirituale» con la quale definisco me stesso definendo
l’altro e la mia relazione con lui. È la mia posizione esistenziale, vitale
nel mondo che poi si traduce in gesti, pensieri, scelte, attività, progetti,
ecc. È il «perché» e il «come» della
mia vita.
Un secondo
aspetto di questa traduzione della spiritualità di comunione in «prassi e
metodo» è la riforma della
«spiritualità» intesa come esperienza e come metodo.
Si
tratterà penso di ri-formare la nostra formazione spirituale,
ri-organizzando gli strumenti (antichi e nuovi) che abbiamo a disposizione.
È evidente che nella misura in cui quella «conversione del cuore» sarà
profonda e globale, questa ricerca pedagogica ne sarà un frutto progressivo e
spontaneo.
In questa ricerca
l’esperienza di Chiara Lubich può aiutarci, perché lei ha già percorso questo
itinerario e la Chiesa,
come abbiamo visto, l’ha fatta propria.
Nella sua
esperienza sono emersi infatti alcuni strumenti che si sono rivelati quelli
più propri di una spiritualità di comunione. Il confronto con essi ci aiuterà
a produrre quei necessari cambiamenti, affinché la nostra formazione
spirituale personale e comunitaria sia fedele all’azione dello Spirito e
all’insegnamento della Chiesa.
Nei testi che
leggeremo Chiara usa l’espressione «spiritualità collettiva» per indicare la
sua esperienza. Qualche tempo dopo cambiò questa espressione in «spiritualità
di comunione».
Il patto dell’amore
scambievole è il passaggio dalla spiritualità “individuale” alla spiritualità
“di comunione”. Questo patto va sigillato con la promessa solenne di
essere pronti a dare la vita l’uno per l’altro. È una “dichiarazione” nella
quale ciascuno manifesta esplicitamente all’altro la sua volontà di amarlo
“come” Gesù l’ha amato: “Io sono pronto a morire per te; io per te, tutti per
ognuno”.
Chiara e le prime focolarine lo fecero per la prima volta nella
festa di Cristo Re del 1944. E da allora, in tutto il Movimento, sempre si è
ripetuto, ricordato e richiamato all’attenzione di tutti, per ravvivare i
rapporti e mantenere fedele il Movimento al carisma ricevuto da Dio: l’unità.
Il primo caposaldo su cui poggia è
senz’altro il comandamento nuovo di Gesù: “Amatevi a vicenda come io ho amato
voi” (Gv 15,21).
È questa Parola di Gesù, assieme a quella
dell’unità, la base della spiritualità collettiva perché per attuarla non
basta una sola persona. Ne occorrono due o tante, una collettività, una
piccola o grande comunità […]
E come facciamo in particolare? Io direi
di ravvivare fra noi questo amore, e perché il nostro agire abbia serietà, e
si segni quasi una nuova tappa nel cammino del nostro Santo Viaggio,
consiglierei a voi e a me di ridichiararci questo amore fra noi […] Fare come
fecero le prime focolarine quando si dissero: “Io sono pronta a morire per
te; io per te”, e cioè tutte per ognuna, gettando così le fondamenta della
nostra Opera. E poi vedere di vivere conseguentemente con tutta l’intensità.
Sapete che l’unità, mediante l’amore
reciproco, non è che si operi una volta per sempre. Essa va rinnovata ogni
giorno mediante propositi e fatti […]
È sacra questa dichiarazione d’amore
reciproco, questo patto che vi domando; è solenne, anche se fatto nella
semplicità; e non è privo di difficoltà. Con alcuni, infatti, sarà facile
pronunciarlo; con altri occorrerà, alle volte, vincere il rispetto umano; con
altri occorrerà preparare il terreno. È un atto non privo di sacrificio
perché occorrerà, alle volte, vincere il rispetto umano, altre, superare
l’indolenza o il tran tran spirituale in cui siamo magari caduti. Bisognerà
praticare l’umiltà per far tacere l’amor proprio, pagare, insomma, il primo costo
del passaggio da un modo di vivere individuale ad una spiritualità
collettiva.
Ma il Signore benedirà ogni sforzo e, se
poi saremo fedeli a quanto abbiamo detto, ci darà la gioia di scorgere la sua
presenza, effetto dell’unità, dovunque ci volgiamo.
E in un altro passo:
È una cosa meravigliosa, che veramente
stupisce tuttora, vedere come Gesù, sin da quando il Movimento fa i primi
passi, spinge noi a sottolineare in maniera tanto forte la frase di san
Pietro: “Soprattutto conservate tra voi una grande carità…” (1Pt 4,8).
Sì, perché questa è la novità della buona
novella: prima di tutto la mutua continua carità. La carità a base di tutto,
anima di tutto, unica capace di dar valore a tutto. In una lettera del ’48,
indirizzata ad un gruppo di religiosi che hanno compreso e accolto il dono
fatto da Dio al Movimento, è scritto: “… prima di tutto (anche se in questo
‘tutto’ ci fossero le cose più belle, le più sacre: come la preghiera, il
celebrare la santa Messa, ecc., ecc.) siano uno!
Allora non saranno più loro ad agire, a
pregare, a celebrare… ma sempre Gesù in loro!.
Questo patto significa esser pronti a vedere il fratello sempre nuovo, cioè sempre
degno di essere amato e capace di amarmi; vuol dire avere pazienza,
sopportare, saper sorvolare; significa dare fiducia, sperare sempre, credere
sempre, soprattutto non giudicare.
Questo patto, che contribuisce a stabilire un rapporto
soprannaturale, va poi messo in
pratica in tutti i momenti della giornata nei quali il fratello, al
quale abbiamo dichiarato di essere pronti a dare la nostra vita, questa vita
ce la chiederà nelle tantissime forme e modalità di ogni giorno.
Se io sono pronto a dare la mia vita per il fratello, cosa
sarà, in confronto alla vita, dare un’ora del mio tempo, un libro, un sorriso,
un quaderno di appunti, un’idea apostolica, un’intuizione spirituale frutto
della mia preghiera, ecc.? Sarà sempre «meno» della vita, ma in realtà sarà tutta la mia vita in quel momento.
La disponibilità a dare la vita si manifesta quindi nel distacco da tutto ciò è «mio» per mettermi
al servizio del fratello. Si tratta di saper spostare tutto e
dimenticare tutto quanto si fa di bello, di grande, di utile per farsi uno
con il prossimo.
Questa disponibilità deve sottostare agli atti d’amore che si fanno, affinché essi siano
espressione effettiva della carità cristiana: tutto diventa occasione
per dimostrare al fratello l’in-tenzione di dare la vita per lui. È una
profonda conversione, è la conversione di ogni momento, è la mia risposta
all’amore di Dio per me, è farmi uno con la Sua volontà!
Questo patto si
concretizza nella comunione di beni materiali e spirituali. Vediamo
allora gli altri strumenti utili alla messa in comune dei «beni spirituali».
Se è una pratica cristiana, se serve alla
nostra santificazione, anche in essa ci dovrà essere il lato cruciale;
anch’essa, come il “patto”, potrà forse costare. Ma è evidente che, se si è
pronti a dare la vita per i fratelli, come con la grazia di Dio vogliamo, si
deve essere disposti almeno ad aprir loro il proprio cuore.
La “comunione d’anima” va fatta fra noi
per rendere comuni i beni spirituali che possediamo, e concorrere così alla
santità altrui come alla nostra. Noi – lo sappiamo – “siamo” tanto in quanto
“siamo per gli altri”.
Si mette in comune tutto quello che è
bello ed utile ai fini della santità e non per ultimi i frutti della nostra
meditazione. […]
In questo modo ci si confronta ogni
giorno, attraverso la lettura della Sacra Scrittura, di brani della nostra spiritualità,
di scritti dei santi o di documenti della Chiesa atti allo scopo… Ci si mette
alla presenza di Dio; si considera lo stato della nostra vita spirituale; ci
si lascia illuminare da un argomento o da un altro che abbiamo sott’occhio;
si parla con la
Santissima Trinità, con Gesù o il Padre o lo Spirito Santo,
oppure con Maria di tutto ciò che interessa la nostra anima; si fanno
propositi da attua conseguentemente.
È bene tutto questo? È ottimo e va fatto
sempre meglio, possibilmente ogni volta con maggiore diligenza.
Ma il semplice far meditazione, anche
perfettamente, non è ancora un caposaldo della nostra spiritualità
collettiva. Fanno così e forse meglio di noi, coloro che seguono spiritualità
individuali. E fanno meditazione anche fedeli di altre religioni.
Noi siamo chiamati a portare beneficio
anche degli altri quello che il Signore ci ha fatto comprendere nella
meditazione e quello che è stato il frutto di essa. E questo si fa nella
“comunione d’anima” […]
Dobbiamo ricordare, a nostro incoraggiamento,
che quello che non si comunica si perde; mentre ciò che si dona torna
rafforzato nell’anima del donatore oltre che risultare di utilità per gli
altri.
Un esempio della “comunione d’anima” ce lo
da Maria di fronte alla cugina Elisabetta. Nel “Magnificat” la Madre di Gesù, la tutta
umile, parla di sé, di ciò che Dio ha operato in Lei e lo fa a gloria di Dio.
è evidente che tra lei e la cugina vi era già l’amore reciproco, ma il
“Magnificat” lo ha rinsaldato.
Così dobbiamo fare anche noi, stando
attenti che tutto serva unicamente al bene dei fratelli e che nulla abbia a
che fare con la nostra vanagloria.
La “Parola di
vita” è una frase del Vangelo da mettere in pratica che ogni mese Chiara
Lubich commenta.
È una pratica a sé stante risalente [...]
ai primi giorni della vita del Movimento […] Per la Parola vissuta con
radicalità Cristo si forma in noi.
È importantissima poi la Parola perché, per suo
mezzo, facciamo nostra tuta quella grande regola (così abbiamo visto il
Vangelo sin dai primi tempi) da cui è stata tratta la nostra spiritualità.
Dal Vangelo, infatti, apprendiamo certamente le parole riguardanti la carità,
ma anche quelle che toccano le altre virtù che noi siamo chiamati a vivere
[...]: la fede, la speranza, la temperanza, la giustizia, la fortezza, la
prudenza, la pazienza, la purezza, l’umiltà, la mitezza, la pietà,
l’obbedienza, la povertà, la misericordia, ecc.
È importantissimo quindi vivere la Parola. Ma ciò non
basta.
Noi siamo chiamati a mettere in comune le
nostre esperienze su di essa. Perché? Perché il Signore vuole così in una
spiritualità collettiva ed il non praticare questa comunione è una grave
omissione. I santi non dubitano tanto ad attribuire al nemico degli uomini
(al diavolo) questa trasgressione.
Sant’Ignazio di Loyola parla in una sua
lettera della “falsa umiltà”, che sarebbe un’arma che il diavolo usa per
danneggiare le persone. Dice: “Vedendo il servitore del Signore tanto buono e
umile che… pensa di essere del tutto inutile… gli fa pensare che, se parla,
di qualche grazia [come sarebbe la luce che viene dal vivere la Parola, aggiungiamo noi]
concessagli da Dio N. S., grazia di opere, propositi e desideri, pecca con [una]
specie di vanagloria perché parla a suo onore. Procura quindi che non parli
dei benefici ricevuti dal suo Signore, impedendo così di produrre frutto in
altri e in se stesso, dato che il ricordo dei benefici ricevuti aiuta sempre
a cose più grandi (Lettera del 18 giugno 1537 in Epistolario I,
99-107).
Io aggiungerei che qualche volta non si
pratica la comunione sulle esperienze della Parola di vita per pigrizia o
perché trascinati da un falso attivismo e più portati quindi a guardare fuori
piuttosto che dentro.
L’ora della verità è lo strumento che più di ogni altro
manifesta l’esigenza e la qualità dell’amore che devono avere le persone che
vogliono vivere la spiritualità di comunione. Si tratta di una forma
particolare di correzione fraterna e di mutua edificazione, due espressioni
dell’amore reciproco già praticate dai primi cristiani (cf. Col 3,16; 2Cor
13,11; Eb 10,24-25).
Sappiamo che i primi cristiani, desiderosi di perfezione
per mantenersi alla sequela di Gesù, ed amanti dei fratelli nei quali avevano
piena fiducia, arrivavano persino a volte a confessare l’uno all’altro i
propri peccati.
Qui si tratta di tutt’altra cosa. I
peccati noi li diciamo ai confessori, ma, per la carità, che pure noi nutriamo
per i nostri simili e per il desiderio di contribuire a santificare con noi
anche loro, ci impegniamo ad offrire ad essi, con amore, quanto possiamo
osservare in loro di negativo e positivo. È una pratica esigente, ma serve
molto al Santo Viaggio. Nel Movimento si era soliti attuarla sin dai primi
tempi e ne abbiamo tuttora un’impressione assai bella.
Il fatto è che un fratello può essere
veramente utile all’altro così come una mano sa lavare l’altra. Ricordo al
proposito un proverbio africano il quale dice che il fratello è come un
occhio che abbiamo dietro. E sta a significare che il fratello vede dove noi
non vediamo.
Occorrerà radunarsi in un gruppo non
troppo numeroso, secondo le varie vocazioni dell’Opera. Perché porti i suoi
frutti, occorrerà avere un po’ di tempo a disposizione ed agire con calma.
Dovrà essere presente un responsabile come moderatore per confermare o
correggere quanto viene detto. Sarà bene prima di ogni altra cosa rinnovare
il Patto fra tutti, perché tutto si svolga solo nell’amore pieno.
E con che animo occorrerà che si disponga
chi viene sottomesso al fraterno giudizio degli altri? Col pensiero di essere
sempre un servo inutile e infedele (cf. Lc 17,10), di essere nulla, perché
tale è ognuno dinanzi a Dio. Così né si turberà, né si esalterà per tutto
quanto viene detto.
Si tirerà poi a sorte uno del gruppo. E,
sotto la guida del moderatore, ogni fratello dirà di quello scelto qualche
difetto, qualche imperfezione, qualche neo che gli sembrerà d’aver
riscontrato in lui. Rifacendo poi il giro, ognuno dirà qualche virtù, qualche
pregio che avrà potuto osservare.
Alla fine – questa la nostra continua
constatazione – tutti sono invasi da una grande gioia e non si sa perché. È,
forse, l’esperienza della libertà cristiana; l’attuazione della Parola: “La
verità vi farà liberi” (Gv 8,23).
Ma quando e come si fa “l’ora della
verità”? Sarà bene farla una volta ogni tanto [...]
È una specie di cosmesi spirituale. E,
come quando si pratica il cosmetico su un volto, toglie le impurità e rende
morbida ed elastica la pelle e dà un senso di benessere, in modo simile
succede per le nostre anime.
Durante l’ora della verità [...] sono i
fratelli e le sorelle a dire qualcosa di negativo o di positivo sul nostro
conto. Ma anche se, per certi particolari, il fratello vede di noi quello che
noi non sappiamo vedere, senza dubbio nessuno conosce meglio noi di noi
stessi.
Noi siamo a conoscenza dei nostri desideri
di perfezione, delle luci che ci consolano, dei propositi che di tanto in
tanto formuliamo, dei risultati, ma anche delle ombre che ci turbano, delle
paure e della lotte che sosteniamo per andare avanti.
Noi sappiamo – se lo Spirito ci illumina –
a che punto può essere la pianticella della nostra unione con Dio… E di cose
del genere, come si è stato suggerito un’altra volta, mettiamo al corrente i
nostri fratelli nella comunione d’anima.
Tuttavia, come, per mantenere la salute
del corpo, non sono sempre sufficienti le nostre cure ma ci affidiamo a
persone esperte come magari per un check-up completo; come non basta lavare e
curare con amore la nostra automobile, per viaggiare sicuri, ma occorre di
tanto in tanto l’occhio esperto di un meccanico, così è bene controllare, di
tempo in tempo, l’andamento della nostra anima con chi conosce più di noi la
vita dello spirito.
Ed è per questo che si consiglia il
colloquio con un fratello o con una sorella più avanti di noi per esperienza
o più adatta, per quella grazia particolare che ha nei nostri riguardi.
Ed è per questo che pure noi saremo alle
volte chiamati a fare dei colloqui con qualcuno che conosce meno di noi la
strada della perfezione.
Anche Gesù faceva colloqui con singole
persone. Il Vangelo ne riporta alcuni. E sono stati importanti come i suoi
discorsi alle folle [… (cf. Gv 4,1-26; 3,1-21)]
È proprio da Lui che occorre imparare a
fare i colloqui. Egli non chiude gli occhi sulla realtà delle persone che ha
davanti: la samaritana peccatrice, Nicodemo, uomo di pietà, anche se pauroso.
E in tutti i casi Egli trova il modo di rivelare loro le grandi realtà che è
venuto a portare al mondo.
Così dobbiamo comportarci nei colloqui che
facciamo con i nostri fratelli: dobbiamo partire dalla loro situazione
presente - che verremo a conoscere se ci metteremo nell’atteggiamento giusto
(quello di amarli con tutto il cuore e tutta la mente) e se saremo totalmente
vuoti (come ci insegna il mistero di Gesù Abbandonato) - perché il fratello
possa aprirsi completamente, svuotando nel nostro cuore la piena che a volte
ha nel suo spirito, così che si dia il via così alla realizzazione, fra noi,
di quel rapporto trinitario che dobbiamo stabilire con lui.
Poi, ascoltando lo Spirito che certamente
parla in noi se abbiamo amato, parliamo, pronti non solo a ridonare la pace e
la serenità al fratello, ma a rivelargli nuovamente, nelle mille sfumature,
l’Ideale che un giorno lo ha illuminato [...]
E come dobbiamo comportarci se siamo noi
in posizione di ricevere? È già chiaro. Dobbiamo disporci anche noi a
stabilire con il fratello o la sorella, che è presente per aiutarci, un
rapporto trinitario. Ed anche in questo caso è maestro Gesù abbandonato,
colui che, avendo donato tutto, si è fatto il vuoto.
Ma qui occorre creare il vuoto in noi
donando la nostra situazione spirituale con le sue lotte e le sue vittorie, i
suoi regressi e i suoi progressi.
E poi, mettendoci in atteggiamento di
ascolto, sicuri che lo Spirito Santo darà la sua luce a chi ci deve
illuminare, e che è soprattutto a Lui, allo Spirito Santo, che dobbiamo la
nostra gratitudine se siamo stati aiutati, sollevati e incoraggiati.
Se tutto procederà in questo modo, anche
qui, come nell’ora della verità, il risultato sarà una profonda gioia: gioia
per la pace ritrovata o aumentata, gioia per vedere ancora e sempre meglio il
nostro cammino dietro a Gesù, causa di ogni nostra felicità.
Nella
spiritualità di comunione il
direttore spirituale è «Gesù in mezzo» (Gesù in me e nel fratello) che
parla in me e attraverso il fratello. È Lui che nell’unità mi nutre, guida e
dirige verso di Sé. Ed io nella misura in cui sono coinvolto nella dinamica
dell’unità, mi lascio nutrire, guidare e dirigere da Lui.
Se nella
spiritualità individuale la condivisione di gruppo è in un certo senso
pensata in funzione della direzione spirituale personale, cioè come un aiuto
al cammino individuale, nella spiritualità di comunione i rapporti si
invertono: la comunione con il
fratello prende il primo posto e il colloquio personale ne diventa un aiuto.
Sembra una
sfumatura. È una rivoluzione! È la realizzazione di quella parola di Gesù che
dice: «Ma voi non fatevi chiamare
“rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E
non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro,
quello del cielo. E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il
vostro Maestro, il Cristo» (Mt 23,8-10).
bibliografia
Chiara
Lubich, Santità di popolo, Città Nuova, Roma 2001.
Chiara
Lubich, La spiritualità collettiva e i suoi strumenti, in Unità e Carismi 3-4 (1995) 12-19.
Michel
Vandeleene, Io - il fratello - Dio nel pensiero di Chiara Lubich, Città
Nuova, Roma 1999, pp. 269-280.
Unità e
Carismi
3-4 (1997), 1 (2006).
Inizio
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