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Per una società
interculturale Breve commento a un
testo di Chiara Lubich |
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Articolo pubblicato Altre pagine Mondanità
Il
motto di Giovani,
Si
apre una Esercizi
Maria
Desolata Il
coraggio Per
una società Gli
strumenti |
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Di fronte
agli interrogativi che nascono nella società multiculturale Chiara Lubich
offre una risposta: occorre passare ad una società interculturale, segnata
dal dialogo e dall’amore reciproco tra le Migrazione
inarrestabile da e verso i quattro angoli del pianeta: sud, nord, est, ovest
ormai fanno parte di un unico orizzonte planetario. Chi può dire oggi dove
nel prossimo futuro ci saranno le migliori e più convenienti condizioni di
vita? La
crisi globale economica e finanziaria, con tutte le sue ramificazioni
mafiose, che sta radicalizzando le disuguaglianze sociali: chi vivrà domani
nella ricchezza e chi nella povertà? In nome della pura sopravvivenza molti
sono costretti ad accettare ricatti che annullano la dignità della persona,
ridotta spesso a merce di scambio. Lo
sappiamo, ci troviamo dentro un passaggio epocale, di cui però non riusciamo
a delineare le prospettive, a individuare le categorie per esprimere ciò che
viviamo. È una notte collettiva e culturale che può generare frustrazione,
senso di fallimento, sofferenza, rabbia, violenza, distruzione nelle persone,
nei rapporti, nelle relazioni sociali e tra gli stati. Quale fede? La
prima risposta che Chiara Lubich ci propone, sull’esempio di sant’Agostino, è
la fede: «In una situazione, per certi versi simile alla
nostra, si è ritrovato un grande santo e dottore della Chiesa, Agostino di
Ippona, che, di fronte al crollo dell’Impero Romano sotto la pressione delle
migrazioni dei popoli del Nord e dell’Est, ha avuto la grazia e la
lungimiranza di aiutare la coscienza cristiana a capire che lo sconvolgimento
delle civiltà, che stava avvenendo sotto gli occhi di tutti i suoi
contemporanei, non era la fine del (loro) mondo, ma la nascita di un mondo
nuovo. La sua era una visione che veniva dalla fede
e dalla convinzione che Dio non è assente dalla storia. L’amore di Dio,
infatti, è tale da saper convogliare ogni cosa al bene, lo dice lo stesso san
Paolo: “Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8, 28). È ora -
mi sembra - la stessa fede che deve sorreggere anche noi e guidarci
nell’attuale situazione». La
fede di cui parla Chiara, mi pare che non sia identificabile soltanto con la
professione di un credo religioso. È anche un orientamento fondamentale
dell’esistenza, un atteggiamento positivo di speranza nella vita e
nell’essere umano, la condivisione dei grandi valori umani come la giustizia,
la solidarietà, la pace, i diritti umani che fa di tutte le persone, credenti
o no, innanzitutto fratelli dell’unica famiglia umana. È
una visione dell’umanità, delle relazioni a tutti i livelli, che pone come
principio e fondamento dell’esistenza la fraternità. Prima di ogni
riferimento religioso particolare, bisogna credere che la mia felicità
personale dipenderà da come avrò vissuto la relazione con l’altro, dalla
risposta che avrò dato ad una semplice domanda: chi è per me l’altro,
chiunque esso sia, e chi voglio essere io per l’altro? Prima
della fede, c’è da chiedermi quale “spiritualità” io viva, quale spirito
animi e orienti il mio modo di sentire, pensare, volere, decidere, in una
parola, di vivere. Se
“individuale”, che mette al centro il “mio” bene, singolo o di gruppo, che
tende ad avere “di più” dell’altro, ipotizzando addirittura che questa
disuguaglianza sia voluta “dall’alto”, se non addirittura “da Dio” (quanti
credenti, anche cristiani, continuano a pensare in questo modo); l’altro
diventa così un concorrente, alias potenziale nemico, da cui difendermi o da
ridurre in mio potere. Oppure
di “comunione”, che mette al centro il bene comune della famiglia umana, il
riconoscimento che tutte le persone hanno lo stesso diritto di usare i beni
di questa terra, che realizzi in progetti concreti il principio che nessuno
ha ricevuto “dall’alto” un “di più” di possibilità, che proponga la felicità
come una meta da raggiungere insieme nella fraternità e nella condivisione
dei beni. Dice ancora Chiara: « Come si potrebbe, infatti, pensare l’unità e
la fraternità nella società e nel mondo senza la visione di tutta l’umanità
come una sola famiglia? E come vederla tale senza la presenza di un Padre per
tutti?... Il Vangelo dice che egli conta persino i capelli del nostro capo
(cf. Lc 12, 7), e il Corano, che “egli è più vicino a noi della vena
giugulare” (s. 15, 16)». La forza dell’amore Oggi
il mondo ha bisogno di un nuovo umanesimo (cristiano) che sappia parlare a
tutti, che ritorni alla radice della stessa esperienza di fede per trovare un
Dio, Padre, Amore che ha un solo desiderio: che gli uomini si amino tra loro.
Per realizzare la fraternità con tutti occorre far proprio il desiderio di
Dio e «vivere l’amore che batte in fondo ad ogni
cuore umano. Esso, per i seguaci di Cristo, è quell’agape che è una
partecipazione all’amore stesso che è in Dio, e per chi segue altre fedi
religiose è un amore che discende da quella “regola d’oro” che impreziosisce
molte religioni e dice: “Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”
(cf. Lc 6, 31), oppure: “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto
a te” (cf. Tb 4, 15)… Amore che per le persone di altra cultura, senza un
riferimento religioso, può voler dire filantropia, solidarietà, non
violenza». C’è
nelle parole di Chiara un evidente fondamento antropologico: l’amore
identifica l’essere umano. Amare, quindi, non è qualcosa che si aggiunge
all’identità come una virtù della quale si potrebbe anche fare a meno. No. Se
l’uomo ama è, se non ama non è. Se ama costruisce la fraternità e afferma la
sua identità, se non ama ferisce il tessuto sociale e sfigura il suo volto. Ma
quali sono le caratteristiche di questo amore che abita nel cuore di tutti?
Chiara ce le spiega con grande semplicità e nitidezza, con quella “debolezza”
che è il segno della verità: «Questo amore evangelico si indirizza a
tutti, a tutti: al simpatico e all’antipatico, al bello e al brutto, a quello
della mia patria e allo straniero, della mia o di un’altra cultura, della mia
o di un’altra religione, amico o nemico che sia… È un amore poi che spinge ad amare per
primi, sempre, senza attendere d’essere amato, come ha fatto Gesù il quale, quando
eravamo ancora peccatori e quindi non amanti, ha dato la vita per noi. È un amore che considera l’altro come se
stesso, che vede nel prossimo un altro se stesso. Diceva pure Gandhi: “‘Tu ed
io siamo una cosa sola. Non posso farti del male senza ferirmi”. Quest’amore, poi, non è fatto solo di parole
o di sentimenti, è concreto. Esige che ci si faccia uno con gli altri, che
“si viva” in certo modo “l’altro” nelle sue sofferenze, nelle sue gioie, per
capirlo, per poterlo servire e aiutare concretamente, efficacemente. Si
tratta di piangere con chi piange e rallegrarsi con chi è nella gioia. Farsi
uno… in modo da poter stabilire con tutti un vero, fraterno dialogo». Società interculturali Dialogo,
un’altra parola forte. E oggi spesso dimenticata. Nelle parole di Chiara c’è
qualcosa di sconvolgente. Dopo aver spiegato in sintesi che cosa sia il
dialogo, dice: “È stato scritto: “Conoscere la religione
dell’altro implica entrare nella pelle dell’altro, vedere il mondo come lui
lo vede, penetrare nel senso che ha per lui essere buddista, musulmano,
indù…”. Non è questa una cosa semplice, esige il vuoto totale di noi, domanda
di togliere dalla nostra testa le idee, dal cuore gli affetti, dalla volontà
ogni cosa per immedesimarsi con l’altro. Si tratta di spostare momentaneamente
persino ciò che possediamo di più bello e di più grande: la nostra stessa
fede, le nostre stesse convinzioni, per essere di fronte all’altro niente, un
‘nulla d’amore’. Ci si mette così in posizione di imparare e si ha sempre da
imparare realmente da tutti». Spostare
tutto, persino la mia fede e le mie convinzioni, per essere un “nulla
d’amore”. Tradotto in altri termini: se io cristiano voglio dialogare con un
altro (credente o non credente che sia) devo spostare in quel momento il mio
rapporto con Dio, devo farmi, mi si passi il termine, come uno che è “senza
Dio”. E
arriviamo al cuore del discorso di Chiara: il passaggio dalla società
multiculturale alla società interculturale. «Se siamo animati da un tale amore, -
continua - l’altro poi può manifestarsi, perché trova in noi chi lo accoglie;
può donarsi, perché trova in noi chi lo ascolta. Veniamo allora a conoscere
la sua fede, la sua cultura, il suo linguaggio; entriamo nel suo mondo, ci
inculturiamo in qualche modo in esso e ne rimaniamo arricchiti. E con questo
atteggiamento contribuiamo a far sì che le nostre società multiculturali
diventino interculturali e cioè composte da culture aperte le une alle altre
e in profondo dialogo d’amore tra esse». Su
cosa può fondarsi la interculturalità? Sui «”semi del Verbo”… che l’amore di Dio ha
deposto in ogni religione» e su «quei valori semplicemente umani… che il
Signore, creandoci, ha disseminato in ogni anima e in ogni cultura». Questi
semi e valori sono risvegliati nei nostri cuori da una presenza misteriosa: «lo Spirito Santo, che è sempre presente
quando si ama». Questo scambio di doni crea un clima di comunione nel quale
«la verità piano piano si svela e ci si sente affratellati da essa». Religioni per la pace «La fraternità vera, reale, sentita –
continua Chiara - è, infatti, il frutto di quell’amore capace di farsi
dialogo, rapporto, di quell’amore cioè che, lungi dal chiudersi
orgogliosamente nel proprio recinto, sa aprirsi verso gli altri e collaborare
con tutte le persone di buona volontà per costruire insieme l’unità e la pace
nel mondo». Essenziale
diventa il ruolo delle religioni, nella misura in cui esse, però, sono capaci
di camminare insieme. Chiara stessa, grande protagonista, spesso nascosta,
del dialogo interreligioso, si fa una domanda che non appare per nulla
retorica: «Ma le religioni, anche nel loro insieme,
possono essere partners nel cammino della pace?». Le
tensioni presenti nel mondo, alimentate ad arte da chi vuole raggiungere
obiettivi di predominio sui popoli, coinvolge purtroppo anche i credenti.
Qualcuno dice che se si abolissero le religioni il mondo troverebbe la pace.
Altri, pensando che il dialogo interreligioso sia superfluo e inutile,
tentano di risuscitare atteggiamenti del passato “in difesa della (vera)
fede”. La
verità è che la causa più profonda delle tensioni sociali da noi tutti
sperimentate è «l’insopportabile sofferenza di fronte a un
mondo ricco per un quinto e povero per quattro quinti, che ha generato e
genera risentimenti covati negli animi da tempo, violenza e vendetta. Si
esige più parità, più solidarietà, soprattutto una più equa condivisione di
beni. Ma, come si sa, i beni non si muovono da
soli, non camminano da sé, vanno mossi i cuori, vanno messi in comunione i
cuori! E per questo occorre diffondere fra più gente possibile l’idea e la
pratica della fraternità, e, data la vastità del problema, di una fraternità
universale. I fratelli sanno pensare ai fratelli, sanno come aiutarli, sanno
condividere quanto hanno». Cosa fanno gli Stati? Lo
sguardo di Chiara, però, va oltre i confini delle religioni. Si allarga ai
rapporti internazionali, fino a denunciare la passività degli Stati ad
assumere decisioni che realmente vadano nella direzione del bene comune universale:
«Da chi, se non dalle grandi tradizioni
religiose, potrebbe partire quella strategia della fraternità capace di
segnare una svolta persino nei rapporti internazionali? Le enormi risorse spirituali e morali, il
contributo di idealità, di aspirazioni alla giustizia, l’impegno a favore dei
più bisognosi, assieme a tutto il peso politico di milioni di credenti, che
scaturiscono dal sentimento religioso, convogliati nel campo delle relazioni
umane, potrebbero senz’altro tradursi in azioni tali da influire
positivamente l’ordine internazionale. Molto si sta facendo nel campo della
solidarietà internazionale da parte delle organizzazioni non governative; ciò
che manca è che gli Stati facciano proprie quelle scelte politiche ed economiche
atte a costruire una comunità fraterna di popoli impegnata a realizzare la
giustizia. Perché di fronte ad una strategia di morte e di odio, l’unica
risposta valida è costruire la pace nella giustizia; ma senza fraternità non
c’è pace. Solo la fraternità fra individui e popoli può assicurare un futuro
di convivenza pacifica». Rileggendo
queste parole, penso, per esempio, agli Stati europei che con fatica, e mille
resistenze, (non) si muovono verso una vera Europa politica che sappia
ripensare se stessa in modo nuovo, come promotrice di nuovi processi
economici e industriali che rispondano alle reali esigenze dei popoli: acqua,
cibo, medicine, istruzione ecc. per tutti. Utopia, sogno o realtà? Chiara
riporta una bellissima frase di Martin Luther King: «Ho il sogno che un giorno gli uomini… si
renderanno conto che sono stati creati per vivere insieme come fratelli… e
che la fraternità… diventerà l’ordine del giorno di un uomo di affari e la
parola d’ordine dell’uomo di governo»[1]. Solo
un sogno, addirittura un’utopia che attraversa i secoli per rimanere comunque
inascoltata, una (inutile) voce nel deserto? Se così fosse, poveri noi. «Ma chi ha ideato e
portato questa verità come dono essenziale all’umanità – continua Chiara -, è
stato Gesù, che ha pregato così prima di morire: “Padre, che tutti siano una
cosa sola” (cf. Gv 17, 21)». È
su questa preghiera che Chiara fonda la sua fede e fiducia che la fraternità,
piano di Dio sull’umanità, si realizzerà. Perché è la preghiera di un Dio che
ha deciso per sempre di abitare “in mezzo a noi”, di rendersi presente lì
dove due o più persone si aprono l’una all’altra «nel dialogo fatto di
benevolenza umana, di stima reciproca, di rispetto, di misericordia». Ciò
che è impossibile agli uomini isolati tra loro, sembra possibile «a gente che
ha fatto dell’amore scambievole, della comprensione reciproca, dell’unità, il
movente essenziale della propria vita». Perché
la presenza di Dio in mezzo a noi è «il grande frutto del nostro amore
scambievole e la forza segreta che dà vigore e successo ai nostri sforzi per
portare ovunque l’unità e la fratellanza universale… quale garanzia migliore
della presenza di Dio, quale possibilità superiore può esistere per coloro
che vogliono essere strumenti di fraternità e di pace?». |
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[1] M.L. King, Discorso della Vigilia di Natale, Atalanta 1967, cit. in Il fronte della coscienza, Torino 1968.